Katalino della malga

Ho conosciuto Katalino in una malga, a 1800 metri. Quando qualcuno ti dice che vuole portarti in malga, chiudi gli occhi e pensa a una distesa di pascoli, in alta montagna, punteggiati da placide mucche e da macchie di abeti scuri. Nel mezzo della malga immagina una casa semplice ed essenziale, con i gerani alle finestrelle e una stalla lì vicino. Per le mucche, appunto. Forse sei già stato in una malga e allora saprai che per arrivarci, devi camminare parecchio su sentieri tutti in salita, che si snodano in mezzo a boschi profumati e un po’ misteriosi. Quando ci sono arrivata io, anche se era mattino presto, tutti erano in fermento.Due uomini stavano pulendo la stalla, mentre le mucche pezzate e brune, ormai munte, si dirigevano verso il prato aperto. Nonno Toni, famoso casaro, stava già lavorando il latte per farne formaggio. Katalino è sbucato all’improvviso dalla cucina della casa. “Chi è quel bambino?” chiedo. “È mio figlio, vive qui con me”” risponde la giovane signora che sta aiutando Toni a trasportare secchi di latte. “Come si chiama?” chiedo ancora. “Katalino” Noi veniamo dalla Romania” Siamo in Italia da quattro mesi”” continua incerta la mamma di Katalino, guardandolo con infinita tenerezza. Il sole sta asciugando l’erba umida e lo spiazzo che divide la casa dalla stalla. Katalino sta controllando un pallone da calcio che rotola disordinatamente fermandosi ora nell’erba, ora contro la palizzata di legno. In un flash vedo quel bambino arrivare un bel giorno di marzo fra quelle montagne, scoprire tutti i segreti della vita di malga, aiutare i grandi nel faticoso lavoro, affiancarsi a loro nei gesti più antichi e riconoscere l’uso degli strumenti più strani. Lo vedo anche giocare a pallone in quel paradiso naturale” però sempre da solo. Così decido che anch’io posso segnare qualche goal, visto che non ci sono arbitri pronti ad annullarlo, e mi avvicino al pallone. Gli occhi di Katalino si illuminano. Poi, quando mi metto a correre dietro al pallone che rotola su quel campo in paurosa pendenza, si fa una bella risata, forse perché essendo un po’ cicciottella, devo essere buffa in quel ruolo di attaccante. Si sarebbe accorto solo più tardi del mio tiro micidiale! Gioco con Katalino fino a quando lui, sfinito, si butta sull’erba, ridendo a più non posso. Io mi sentivo sfinita molto prima di lui ma, orgogliosamente, ho tenuto duro. “Quanti anni hai?”. “Sei”. “Sei andato a scuola?”. “Ci vado dopo, per leggere e scrivere”. “La mamma ti racconta le storie?”. “Sì”. “Ti piacciono le favole?”. “No, mi piacciono poco poco” poi aggiunge, indicandomi una cosa pelosa e ansimante “vedi quel cane? Si chiama Orso. È mio amico, altri cani sono chiusi dentro il canile”. Caspita, penso, dopo quattro mesi si arrangia benino con l’italiano. Lo ha imparato vivendo accanto a Toni, l’unico italiano del gruppo che vive in malga. Katalino è un tipo deciso e, quando riprendo fra i piedi il pallone, me lo sequestra e lo blocca dietro un sasso. Poi sparisce. “Fine del gioco” sospiro un po’ delusa. Però Katalino arriva subito dopo con una scatola, un gioco. “Vieni con me, voglio giocare. Guarda””. “Ehi, questo è un gioco per imparare a leggere e a scrivere!” esclamo io un po’ sorpresa. Mi guarda con sospetto. Poi mi regala un sorriso comprensivo. Ho pensato: deve aver capito che di mestiere faccio la maestra, ma mi dà un’ultima chance. Con i gesti accurati di un prestigiatore stende sul tavolo tutti i riquadri delle lettere dell’alfabeto, poi comincia a ordinare con pazienza le tessere: disegno e parola. “P” come pecora, C” come cane, cavallo, M” come mucca, maiale” recito solenne. “Questi sono tutti animali!” preciso io. “Sì” aggiunge lui “L” come lupo. Anche in Romania si dice così”quasi quasi”. Mi chiede di ripetere i suoni difficili e io lo incoraggio. I nomi sono diventati tanti davvero: oggetti familiari, animali, nomi complessi, Katalino ripete e ricorda tutto, ripete sillabe e lettere. Io chiedo la traduzione in rumeno e ripeto, anche il bambino mi corregge severo, se sbaglio. Mi chiamano per assistere all’ultima operazione della lavorazione del formaggio. Rassicuro Katalino che sarei tornata presto. Poi accanto alle forme cilindriche gocciolanti di siero, una manina mi strattona decisa. I signori importanti, venuti lì per assistere a quel rito, mi guardano interrogativamente e io spiego: “Ops, scusate ho un impegno””. Esco con il mio nuovo amico rumeno e continuo con lui il gioco, creandogli un po’ di scompiglio, usando qualche trucco per metterlo in imbarazzo con lettere e disegni. Così mi potrà provare la sua abilità di riconoscere parole italiane, leggendole attraverso i disegni. “Una gran voglia d’imparare, non c’è dubbio!” commento a voce alta. “A scuola in settembre” qui in Italia, sì?” balbetta alle mie spalle la mamma di Katalino. “Sì, a settembre”” rassicuro quella mamma rumena che sta lavorando da mesi in malga, con il suo intraprendente bambino. “Mio marito ha lavoro nel paese” Katalino va a scuola””. Il sole ormai brilla alto e io ho un abbaglio: vedo Katalino sui banchi di scuola, in un’aula fiorita di gerani rossi, piena di bambini e di maestre. Con la voglia che ha di imparare, prima di settembre Katalino saprà già leggere le parole di quel gioco intrigante. Saprà anche raccontare ai suoi compagni come vivono le mucche in malga, come si fa il formaggio, quali fiori e quali uccelli vivono a 1800 metri. E potrà finalmente giocare a pallone con gli altri bambini! Buona fortuna, Katalino! gli dico con lo sguardo. Lui ha capito, spalanca gli occhi, mi saluta e rotola nell’erba profumata.

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