Kafka e la nostalgia dell’infinito
Franz Kafka è morto cento anni fa, il 3 giugno del 1924, intorno a mezzogiorno. È morto giovane, prima di compiere 41 anni. Dopo mesi di agonia, è morto di tubercolosi in una stanza del sanatorio di Kierling, non lontano da Vienna, nella clinica del dottor Hoffmann: oggi è un piccolo museo dedicato allo scrittore boemo.
Accanto a Kafka c’erano l’amico di sempre, Max Brod, e la sua ultima fidanzata – forse la più devota – la polacca Dora Diamant. La loro relazione era fresca, non aveva neppure un anno. Kafka, disteso sul letto, era in condizioni pietose: Max Brod dice che nonostante il suo metro e ottanta di altezza, era pelle e ossa, pesava circa 50 kg, vestiti compresi. Durante l’ultimo periodo di malattia Kafka non riusciva più a parlare, comunicava con i suoi amici scrivendo su pezzi di carta i suoi pensieri, le sue preoccupazioni, i suoi ricordi. Alcuni di questi fogli, che non sono mai stati pubblicati, si trovano nella Libreria Nazionale di Israele, a Gerusalemme.
Kafka, che fino ad allora aveva pubblicato pochissimo, chiese a Dora Diamant e Max Brod di distruggere tutti i suoi lavori letterari. Dissero di sì, ma non gli obbedirono: è grazie a loro che ancora oggi possiamo leggere quelle opere straordinarie. La vita di Kafka è stata tormentata. È stata una vita fortemente permeata dalla malinconia. Quel sentimento che Romano Guardini, nel suo bellissimo Ritratto della Malinconia, vede tutt’altro che negativo e definisce “nostalgia dell’infinito”. Lui vedeva la malinconia come una potente fonte di immaginazione creatrice.
Eugenio Borgna, il grande psichiatra, precisa: “la malinconia può sconfinare nella depressione, sebbene l’una sia radicalmente diversa dall’altra”. La depressione è una patologia che va curata; la malinconia porta spesso a uno sguardo penetrante, lucido, nell’oscurità della realtà. La malinconia di Kafka, in parte derivava dal suo innato carattere, in parte dalla tormentata relazione con il padre Herman. A lui scrisse una lettera, dura, spietata, che mai gli recapitò. La fece leggere solo alla madre, che gli consigliò di tenerla per sé. Da questa lettera appare chiara l’ambivalenza della sua relazione con il padre. Che era segnata, da un lato, da un’ammirazione smisurata e dalla voglia di essere come lui; dall’altro, dalla rabbia di non riuscirci e sentirsi sempre umiliato.
Kafka cercava spesso di compiacere il padre, ma era un tentativo vano, perché facendo così non era se stesso, e si sentiva ancora più frustrato. Cercava rifugio in sua madre Julie, una donna riservata e affettuosa, che si occupava della gestione della casa e della famiglia, ma che era totalmente oscurata dalla predominanza del padre. Padre e figlio, così vicini, così lontani. Non sono mai riusciti a incontrarsi. Questo ha avuto una grande impatto nella vita emotiva e affettiva di Franz Kafka. Che descriveva il padre come un uomo sicuro di sé, dotato di «forza, salute, appetito, potenza di voce, capacità oratoria, autosufficienza, senso di superiorità, tenacia, presenza di spirito, conoscenza degli uomini, irascibilità».
Poi guardava se stesso: si vedeva pauroso e testardo, gracile, introverso, divorato dal tormento interiore, uno che coccolava la morte per paura della vita. Nell’amore sognava il riscatto da questa sua condizione di inferiorità, come lui la percepiva. Nel matrimonio sognava la liberazione dai suoi problemi e l’indipendenza. Scriveva nella lettera al padre: «Io avrei una famiglia, vale a dire la meta più alta che a mio avviso si possa raggiungere, una meta che tu hai raggiunto, e quindi saremmo alla pari».
Oggi gli psicologi parlerebbero di “dipendenza affettiva”, una disfunzione che può gravare pesantemente in una relazione di coppia. Di fatto Franz non riuscì mai a sposarsi. Nei suoi ultimi anni, Kafka visitò raramente la casa dei suoi genitori mentre cercava di costruirsi una nuova vita come avvocato lavorando per una compagnia di assicurazioni gestita dal governo, e diventando uno scrittore, sebbene raramente pubblicato.
Nelle sue opere esplorava l’alienazione dell’individuo nella società moderna, la condizione umana smarrita nella lotta contro forze insondabili come la burocrazia e le strutture di potere. Nelle sue pagine si riflettono molte delle ansie e delle incertezze del XX secolo, tra cui la disumanizzazione, la perdita di senso e l’angoscia esistenziale. Kafka ha così contribuito a plasmare il modernismo e il postmodernismo, introducendo temi e tecniche narrative che continuano a influenzare diversi scrittori contemporanei. Ancora oggi Kafka, dal piedistallo della sua malinconia, ci parla. Parla alle nostre solitudini, alle nostre rabbie, ai nostri turbamenti, alle nostre frustrazioni. Non ci porta a trovare soluzioni, la luce in fondo al tunnel. Ma a scendere nel baratro buio della nostra anima, per acquisire consapevolezza di cosa c’è lì dentro. E questo non è poco. È l’unica strada, sebbene dolorosa, alla soluzione dei problemi.
—
Sostieni l’informazione libera di Città Nuova! Come? Scopri le nostre riviste, i corsi di formazione agile e i nostri progetti. Insieme possiamo fare la differenza! Per informazioni: rete@cittanuova.it
—