Julieta di Almodóvar

Madrid, la solitudine di una donna matura, i ricordi che affiorano tristemente. L'ultimo film del regista spagnolo ha per protagonista il tempo come luogo della memoria. Nelle sale anche Il Traduttore di Massimo Natale, con Kamil Kula e Claudia Gerini, e per distrarsi Alice nello specchio, targato Disney
Julieta di Almodóvar

Di dolore non si muore. Scotta il tema della sofferenza, al cinema, sempre. È un peccato che Julieta di Almodóvar sia stato forse poco capito a Cannes, e non solo. È un film diverso dal solito – questo l’hanno sottolineato in molti – e forse c’è bisogno per noi di non attendersi storie eclatanti, stile colorato. La solitudine di una donna matura come Julieta a Madrid non è colmata dall’amicizia, dai rapporti sociali, dalla vita borghese, e nemmeno dall’uomo che ama e che all’ultimo momento decide di non seguire più in Portogallo. In verità c’è una ferita intima che la rende colma di angoscia: da dodici anni non ha notizie dell’unica figlia, che l’ha inaspettatamente lasciata ed è sparita nel nulla. I ricordi affiorano tristemente: il pescatore che ha amato ed è morto – il padre della figlia –, il rimorso, la frustrazione, la depressione, l’educazione della ragazza. Onde dolorose e misteriose, finché un raggio di luce sembra aprirsi e forse il dolore potrà svanire.

 

Essenziale, privo di ammiccamenti, scavato e intimista, l’ultimo film di Pedro Almodóvar è fortemente introspettivo. Ma senza alcuna artificiosità o eccesso. Lascia intravedere uno spiraglio personale del regista molto intenso, seppur delicatamente accennato. Per questo il lavoro è lento, fatto di quadri più che di troppi movimenti, spazi dell’anima. La recitazione di Emma Suárez e Adriana Ugarte è bella e credibile. La macchina da presa indugia spesso sui primi piani – volti, corpi, cose –, creando una poesia malinconica appesa a un filo di speranza. Grande protagonista è il tempo come luogo della memoria, della purificazione del dolore e dell’attesa. Guardato dal mondo delle donne, perciò più denso, emotivo, da un Almodóvar questa volta non compiaciuto ma raffrenato. L’età porta consiglio…

 

Ed è sofferenza anche nella seconda opera di Massimo Natale, che qualche anno fa esordì con il poetico L’estate di Martino. Ora, con Il Traduttore, racconta di Andrej (il polacco Kamil Kula), studente romeno in Italia, che per far venire la ragazza si adatta a vari lavori: pizzaiolo, traduttore per la polizia e per una signora benestante (Claudia Gerini) di Trento, da poco vedova, che ha scoperto il diario del marito. Ma le sue traduzioni sono oneste? Non sempre. La donna vive con il giovane una storia passionale, lui viene ricattato dalla polizia per ottenere il permesso di soggiorno per la fidanzata: in pratica è una strumentalizzazione reciproca. Ma Andrej non ha gioia, anzi si incupisce e si sente solo, lontano da una società italiana dove gli piace stare ma che chiede compromessi. Il film non realizza tutto quel che potrebbe e appare discontinuo, nonostante l’impegno degli attori (bene il polacco, meno la Gerini): la storia degli immigrati e della loro vita dura forse meritava più equilibrio, e meno concessioni ai cliché (la storia passionale). Ma è lodevole lo sforzo di creare un’aria  inquieta e tesa, anche nella fotografia, che da sola narra una sofferenza fino al pianto e accentua alla fine un disperato bisogno di libertà.

 

Alice nello specchio è un puro divertimento, targato Disney, la seconda e ultima (speriamo) volta di Alice che si intrufola grazie allo specchio magico nel Sottomondo, dove ritrova gli amici di sempre, primo fra tutti il Cappellaio Matto (Johnny Depp truccatissimo), depresso. Per aiutarlo sfiderà il tempo e i suoi ministri in corse vertiginose attraverso i decenni. Insomma, mirabili effetti speciali, pazzie e magie del computer e la storia? La storia si sa come va a finire. Per chi ama rilassarsi con una favola coloratissima e bizzarra, cioè (forse) per tutti.

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