Judy, la Garland fuori dal palco

Presentato, nella rassegna romana, il film sulla vera storia della famosa cantante, attrice, ballerina, interpretata da una Renèe Zellweger in una prestazione da Oscar

L’anno scorso, alla festa del cinema di Roma era stato presentato un film su Stanlio e Ollio, che oltre ad essere bellissimo, nel suo impasto di malinconia e delicatezza, era un film sull’amicizia.

Parlava di un rapporto affettivo, di una relazione umana, di un legame costruttivo tra persone dentro il mondo scintillante, attraente, ma anche pieno di voragini, dello spettacolo.

Ora un’altra biografia cinematografica, più amara di quella dell’esilarante coppia di attori, uno magro e l’altro grasso, riporta alla lontana Hollywood della fine degli anni ’30, e poi, soprattutto, con un salto avanti nel tempo, alla parabola discendente, nel dopoguerra, di chi di quel sistema era stata una stella. È la storia, stavolta, di Judy Garland: cantante, attrice, ballerina; qui interpretata da una mostruosa Renèe Zellweger, irriconoscibile, generosissima, meritatamente in odore di Oscar. Il film racconta di un talento puro per il canto, di una voce rara, però mercificata violentemente dall’industria dello spettacolo.

Judy, o meglio ancora Frances Ethel Gumm – solo poi, in arte, Judi Garlandera una ragazzina alla quale venne detto – stando ai dialoghi del film di Rupert Goold – di essere fatta per qualcosa di più grande che diventare madre o cassiera. Ed è giusto che chi possiede una dote possa esprimerla; è sacrosanto coltivare un dono naturale ricevuto.

Diverso, invece, è obbligare quel talento a divorare l’intero spazio di un’esistenza, trasformare una vita unicamente in un prodotto commerciale, spegnere un corpo e una mente dentro una macchina per fare soldi. Accadde, vediamo nel film, che con le parole scaltre degli adulti in faccia agli occhi spaesati e fragili di una ragazzina (soprattutto i discorsi minacciosi e manipolatori del patron della Mgm, Louis B. Mayer) vennero repressi i desideri e i bisogni primari di un’adolescente: persino mangiare o festeggiare il compleanno, visto che quello della giovane cadeva nel mezzo delle riprese.

E allora ecco una festa finta, in una data casuale, organizzata dalla casa di produzione con tanto di torta di plastica e piscina solo da guardare. Come gli hamburger, del resto, rigorosamente eliminati dalla dieta: solo pasticche per sconfiggere la fame, e siccome toglievano il sonno, eccone altre per dormire.

E così la giovane stella iniziò a brillare in un mondo artificiale, fiabesco e fasullo come le scenografie de Il mago di Oz, di cui la Garland fu splendida protagonista nel 1939, a soli sedici anni.

Ma il corpo della ragazzina, nel mondo vero dei rapporti umani, iniziò a portare addosso i segni di quell’abuso, e col tempo le storture avvenute degenerarono in un uso esagerato di farmaci ed alcool.

Li vediamo tutti, i segni di quel mancato sviluppo naturale, nel salto che la pellicola compie nel 1968, quando a Londra, una Judi Garland ormai lacerata nel corpo, tornò a esibirsi per mettere insieme qualche soldo, nel tentativo, disperato, di riprendere la custodia dei figli più giovani, amati ma non protetti, vittime anche loro delle ferite subite dalla madre.

Sarebbe morta cinque mesi dopo, Judi Garland, a soli 47 anni, eppure eccola lì, a cantare e a muoversi come uno straordinario animale da palcoscenico, con un amore forte per i figli ancora piccoli, ancora bisognosi di un affetto e di quella sicurezza che lei, soffrendoci molto, non era riuscita a dare loro.

È una donna impaurita e sola quella che canta nei teatri di Londra, è aggressiva e ingestibile perché è assai fragile. È una donna innamorata del pubblico, sinceramente, nel modo migliore: perché affamata di quelle relazioni profonde che le sono state negate, ma delle quali, a modo suo, disordinatamente, selvaticamente, goffamente, non riesce a fare a meno.

E sul palco le trova più che altrove. Una sera, però, dopo lo spettacolo, incontra fuori dal teatro due fans attempati che le testimoniano un affetto immenso. Chiede loro di andare a mangiare un boccone in compagnia, ma non trovando nessun locale aperto finisce a casa loro: prima a mangiare un terribile uovo strapazzato e poi a cantare e a suonare al pianoforte, fino all’alba, abbracciando quegli amici appena conosciuti dopo aver ascoltato le loro sofferenze.

È quell’umanità di cui nessuno può fare a meno, nemmeno chi ha talento e successo. È quella fame di verità che sconfigge nettamente l’artificio della fama, la ricerca di sentirsi superiori agli altri. Nessuno può permettersi di trascurarla, di metterla da parte, se non vuole pagare un prezzo molto alto. Lo rammenta il biopic su Judi Garland, che proprio per questo è un buon film. Arriverà al cinema il 16 gennaio del 2020.

 

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