Jorit, tutti della stessa tribù

Jorit, giovane artista di strada internazionalmente noto. Il messaggio sociale dei suoi “murales”.

Facciamo parte tutti della stessa famiglia umana. Purtroppo questa semplice verità, che dovrebbe favorire la concordia fra i popoli e le nazioni, non è ancora universalmente acquisita né praticata. E le conseguenze nefaste di ciò sono ogni giorno sotto i nostri occhi. C’è però chi si ostina a ricordarcelo con i mezzi che ha a disposizione. Come Ciro Cerullo, meglio noto come Jorit, un giovane artista di strada che ha lasciato la sua impronta non solo a Napoli, la città d’origine, ma in tanti altri posti d’Italia e del mondo.

Nato nel 1994, questo talentuoso esponente della street art ha cominciato a farsi conoscere nel 2005 attraverso una serie di murales eseguiti nella periferia Nord e nel centro storico della città partenopea: opere ancora molto legate al graffitismo tradizionale, ma che già cominciavano ad avvicinarsi a uno stile decisamente figurativo. Da allora Jorit si è andato concentrando sulla raffigurazione del volto umano, dove il ruolo fondamentale è giocato dallo sguardo, rivelatore d’interiorità.

È difficile sottrarsi al fascino emanato da certe sue gigantesche creazioni che sulle superfici più varie (la facciata cieca di un condominio o di un edificio pubblico, una fabbrica dismessa, un qualsiasi muro…) ridanno umanità, vita e colore là dove la bellezza non è certo di casa. Quei volti i cui sguardi ti seguono e ti accompagnano, trasmettendo un’emozione, appartengono a uomini e donne di ogni età, cultura e razza; a personaggi noti come Gagarin, Che Guevara, Mandela, a star dello sport o della musica come Maradona e Pino Daniele, a santi come Don Bosco; oppure – e sono i più –  a gente comune come rom, senzatetto, bambini autistici… tutti accomunati dalla stessa dignità, tutti con le guance marchiate da due strisce rosse che rimandano alle incisioni iniziatiche di certi rituali magico-curativi, molto probabilmente appresi da Jorit nei suoi soggiorni africani: pratica, questa della “scarificazione”, legata al passaggio dall’infanzia all’età adulta, quando l’individuo entra a far parte a pieno diritto della tribù. In sostanza, con questi contrassegni sui volti l’autore vuole esprimere un’idea di fondo, un messaggio: facciamo parte tutti della stessa tribù umana. Il suo è quindi un invito alla solidarietà e alla fratellanza, spesso sottolineato o ampliato da parole e frasi “nascoste” nei particolari di certe opere.

Date le sue preferenze per i quartieri a rischio e per figure-simbolo come attivisti per l’ambiente, per i diritti civili e delle minoranze, non sempre Jorit ha avuto la vita facile: tanto per dirne una, nel 2018 è stato espulso da Israele dopo 24 ore di prigionia per aver dipinto, insieme ad un altro artista, un murale col volto della giovane palestinese Ahed Tamini, divenuta emblema di una nuova intifada. Senza contare che occorre un talento eccezionale unito a spericolatezza per dipingere col proprio armamentario di bombolette spray, sopra impalcature spesso a decine di metri di altezza dal suolo, superfici così vaste: impegno ampiamente ripagato però dalla soddisfazione di contribuire – con quei dipinti alla vista di tutti – a ravvivare la monotonia di certi quartieri e a far riflettere anche chi forse mai in vita sua metterebbe piede in un museo o in una galleria d’arte.

Colpiscono certe foto che lo ritraggono minuscolo e quasi parte stessa di un enorme murale appena concluso. Se poi lo intervisti, scopri subito quanto non ci tenga ad apparire («Se qualcuno è interessato a ciò che faccio, deve rimanere su quello, non sulla sua persona») e quanto sia consapevole dei limiti di ciò che fa («Non possiamo illuderci che l’arte cambi il mondo, che sia la soluzione ai problemi. Ma la street art è un mezzo per migliorare l’aspetto delle periferie. E per sostenerne il recupero sociale»).

La prima volta in cui mi sono imbattuto in un’opera di Jorit, per me ancora un illustre sconosciuto, è stata a Napoli qualche tempo fa. Percorrevo via Duomo quando all’altezza della piazzetta Crocelle ai Mannesi, accanto alla basilica di San Giorgio Maggiore, m’è apparso su una parete un enorme san Gennaro con tanto di mitria, diverso dalle solite immagini idealizzate. Come avrei scoperto in seguito, per quel volto realistico e piuttosto comune aveva fatto da modello un semplice operaio: un po’ lo stesso metodo di Caravaggio, che i “santi” da dipingere se li cercava fra la plebe.

Ho ammirato a lungo quel san Gennaro “contemporaneo”, così intonato al posto in cui era piazzato: lasciate infatti le ampolle col famoso sangue al sicuro nel vicino Duomo, sembrava tornato in mezzo al suo popolo e per di più all’imbocco di Forcella, quartiere tristemente noto per i fatti di malavita e di un altro sangue: come l’uccisione, nel 2018, della giovanissima Annalisa Durante nel corso di un agguato camorristico. Non mi spiegavo però le linee rosse sulle guance del patrono di Napoli. Ora che l’ho scoperto, non posso che sentirmi anch’io in sintonia con Jorit, partecipe della stessa tribù.

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