Jorien, Bode e quelle medaglie da dedicare a chi non c’è più
«È l’Olimpiade, bellezza, e tu non puoi farci niente». Rivisitiamo a modo nostro la celebre frase di Humphrey Bogart per sottolineare l’irresistibile fascino dei Giochi, con le sue storie di umanità, di determinazione, di forza di volontà. Storie di vita, grandi e piccole, che stanno segnando questa avventura a cinque cerchi. Ma anche eventi di enorme portata capaci di fermare un intero Paese, come per esempio il torneo di hockey maschile, l’oro più desiderato dal popolo russo (al pari di quello, sfumato ancor prima che la competizione entrasse nel vivo, di un Evgeni Plushenko ferito nel morale ancor prima che nel fisico) e dagli stessi giocatori della Nazionale di casa, i quali nel weekend hanno dato vita a uno spettacolare match contro gli Stati Uniti. Impossibile, nell’occasione, non ricordare il miracle on ice, il miracolo su ghiaccio che ai Giochi di Lake Placid ’80 vide protagonista la rappresentativa a stelle e strisce, formata da soli giocatori universitari, ma capace di battere la corazzata sovietica e conquistare la più inattesa delle medaglie d’oro. Sabato si sono imposti gli States ai rigori, ma chissà che la rivincita russa non si consumi più avanti nel torneo, magari proprio in finale.
Storie di vita, dicevamo, come quella della pattinatrice Jorien ter Mors, trionfatrice dei 1500 in pista lunga a 24 ore dal quarto posto nella medesima distanza, ma in pista corta. Dallo short track allo speed skating, dalla medaglia di legno a quella d’oro, per un inatteso successo da dedicare al padre Henk, scomparso un anno fa a causa di un male incurabile. La vittoria della 24enne di Enschede, la quale ha preceduto le connazionali Wüst, van Beek e Leenstra per il primo storico poker olandese ai Giochi invernali (16 le medaglie conquistate da pattinatrici e pattinatori orange a Sochi 2014: battuto il record dell’Austria di Torino 2006, capace di portarsi a casa 14 medaglie nel solo sci alpino), è ancor più sorprendente se si considera che quelli vinti sul ghiaccio della Adler Arena sono stati appena i decimi 1500 da lei corsi in carriera. Quando il talento ha la meglio sull’esperienza.
Chi di talento ed esperienza ne ha da vendere è Bode Miller, cinque Olimpiadi e sei medaglie, l’ultima delle quali conquistata nel super G di ieri a Krasnaja Poljana. Lui, il Tomba del 2000 quanto a successi e impatto mediatico, l’irriverente guascone delle piste, a 36 anni è un campione maturo, una persona segnata dalle sofferenze degli ultimi anni. «Se questa medaglia mi ripaga di tutte le sofferenze patite? Assolutamente no, avrei voluto riavere indietro mio fratello». Si commuove, Bode, ricordando Chelone, il fratello morto l’anno scorso per una crisi epilettica avuta nel sonno. Poi, su Twitter, ribadisce: «Grazie a tutti per il supporto. È uno dei giorni più emozionanti della mia vita. Mi manca mio fratello». Un vuoto impossibile da colmare per lo sciatore statunitense, reduce anche da un brutto infortunio al ginocchio e da alcune vicissitudini familiari (il mancato affidamento di uno dei due figli e la scomparsa del bimbo che sua moglie Morgan portava in grembo) dalle quali è uscito profondamente cambiato. Un campione che ci ha fatto divertire e, da ieri, anche commuovere.
E gli italiani? Beh, ci sono anche loro, in attesa di un oro che per il momento resta tabù. Cinque le medaglie conquistate sinora, tre gli azzurri andati a podio: Armin Zöggeler, Christof Innerhofer e Arianna Fontana. Al bello e sfortunato argento nei 500 dello short track, la 23enne valtellinese ha aggiunto l’ottimo bronzo nei 1500; dopo il secondo posto in discesa, il 29enne altoatesino è arrivato sorprendentemente terzo in supercombinata. Cammini simili per campioni diversi: tanto uomo-copertina Inner quanto ragazza di famiglia Ari, prossima sposa del compagno di Nazionale, Anthony Lobello. Se però Innerhofer ha già preso il volo di ritorno per l’Italia, la Fontana è attesa ad altre due gare a cinque cerchi: i 1000 e la staffetta, occasioni buone per rendere questo 2014 ancor più indimenticabile.