Jonathan Galindo e la necessità di omologazione dei giovani

Il  "gioco" parte da una richiesta di amicizia. Una volta accettata si entra in un meccanismo perverso: alla vittima vengono proposte delle sfide e delle prove di coraggio fino all'autolesionismo
Jonathan Galindo (da Facebook

Si è lanciato dal balcone, forse per rispondere ad una challenge, una delle tante sfide che corrono sul web tra gli adolescenti. È morto così un bambino di 11 anni di Napoli, che ha lasciato ai genitori un biglietto straziante: “Mamma e papà vi amo, ma devo seguire l’uomo con il cappuccio”. La procura ha aperto un’inchiesta per istigazione al suicidio.

«Vuoi giocare con me?». La sfida online (challenge) parte da una richiesta di amicizia su Instagram, Facebook o Tik Tok fatta soprattutto ai giovanissimi. Il mittente ha come foto profilo la faccia di un uomo mascherato da Pippo, il personaggio della Disney. Ma “Jonathan Galindo” (questo è il nome del profilo da cui arriva il contatto) non ha buoni intenzioni, e ciò che propone di fare sui social è tutto fuorché un gioco. Una volta accettata la richiesta di amicizia si entra in un meccanismo perverso: si riceve attraverso la messaggistica un link che propone alla vittima delle sfide e prove di coraggio che si fanno sempre più difficili, fino ad arrivare all’autolesionismo.

Sgombriamo il campo dagli equivoci: Jonathan Galindo non esiste. Esiste qualcuno, senza scrupoli, che ha preso l’immagine di una maschera creata per il cinema e l’ha usata per spaventare bambini.

Chiking gameBatmanningEyeballing, PlankingBlu WhaleBird box challenge, sono solo alcuni dei nomi della challenge che si sono diffuse tra i giovanissimi attraverso i social network (Tik Tok in particolare) in questi anni, ognuna con prove (estreme) da compiere: appendersi con i piedi a testa in giù, versarsi della vodka negli occhi, mettere la testa nel water o camminare bendati per strada.

Ciò che rende queste sfide così pericolose è la velocità con cui essere dilagano sul web e, di conseguenza, l’altissimo effetto di contagio e il numero di giovanissimi che possono venire coinvolti in pochissimo tempo, spesso senza che chi gli sta attorno possa accorgersi di niente. Nel caso specifico, poi, si aggiunge l’elemento del “patto di segretezza”, che si viene a creare attraverso minacce che, in maniera manipolatoria, cercano di portare queste piccole vittime a mettere in atto comportamenti via via sempre più pericolosi.

Perché queste sfide attraggono i ragazzi?

In una società che ha progressivamente cancellato tanti “riti” che hanno segnato e caratterizzato il passaggio tra una fase e l’altra della crescita, come sottolinea Maura Manca, psicoterapeuta e presidente dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza, “i ragazzi, come i bambini, sono attratti da queste creazioni del web per una curiosità insita nella crescita, per omologazione e, in alcuni casi, soprattutto quando si tratta di contenuti che fanno paura, per una sfida, un modo per dimostrare il proprio coraggio”.

C’è poi un altro aspetto: come sottolinea la psicoterapeuta “i giovani di oggi sono figli di una società dove violenza e aggressività sono normalizzate e parte della dieta mediatica quotidiana. Una società competitiva e molto poco cooperativa. Così partecipare a queste sfide esprime trasgressione e la possibilità per accrescere la propria autostima basata sul riconoscimento sociale, per rinforzare il proprio ruolo all’interno del gruppo dimostrando il proprio coraggio”. Un gruppo che però, nell’era tecnologica, è potenzialmente formato da migliaia di persone. Quella dei ragazzi, continua Manca, “è una richiesta di ascolto che nella maggior parte dei casi l’adulto non riesce a garantire perché impreparato di fronte all’estrema velocità con cui cambia il mondo”.

Come “combattere” la challenge e le sfide online

Come prima cosa, non bisogna farsi prendere dal panico. Le sfide online esisteranno sempre, alcune sono innocue e divertenti, altre pericolose e vanno isolate. E poi ascolto, dialogo e presenza consapevole di come gli adolescenti utilizzano la Rete per arrivare ad un percorso improntato su un fare di senso digitale che invece di allontanare, ci avvicini agli adolescenti.

I genitori del bambino di Napoli hanno raccontato di aver notato una certa inquietudine nel figlio nei giorni precedenti alla tragedia. Dunque, ascolto, per captare segnali di inquietudine che può essere generata dalle proposte che i ragazzi ricevono.

Dialogo e presenza consapevole: spieghiamo loro che non è bene accettare l’amicizia o richieste di contatto da sconosciuti, che queste avvengano via social (Instagram e Tik Tok sopratutto) o nelle chat dei giochi online.
Che non è bene cliccare su link inviati da sconosciuti e condividere informazioni personali (numero di telefono, indirizzo, nome) con utenti che non si conoscono già nel “mondo reale”.
Che chi incontrano sul web non ha strumenti per costringerli a fare nulla di ciò che non vogliono. E poi rassicuriamoli del fatto che qualsiasi cosa accada in Rete, hanno intorno delle persone che gli vogliono bene e nei casi peggiori, può intervenire la Polizia Postale.

Un modo più pratico per avere più sotto controllo la situazione è utilizzare sistemi di parental control, spesso già presenti sui dispositivi, controllare spesso la cronologia di video e pagine visitate, e, nel limite del possibile, far utilizzare i dispositivi in luoghi visibili della casa.

Ma forse la vera sfida di questi tempi digitali è quella di inventare noi nuove sfide: guardarsi negli occhi, tirare fuori parole non dette, scoprire di avere una vita di personalità e non essere avatar di tanti sé fantasma da mostrare online. Come? Rafforzando le competenze personali,  aiutando lo sviluppo di relazioni autentiche, migliorando le comunità “fisiche” in cui i giovanissimi sono inseriti.

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