Johnny Cattaneo tra vittorie e divertimento

Lo svizzero Cristoph Sausser conquista il campionato del mondo mountain bike marathon, svoltosi ieri a Montebelluna (Tv). Tra i protagonisti anche Johnny Cattaneo, già campione italiano della specialità nel 2010
Jhonny

Sempre su e giù tra montagne e colline. La mountain bike, categoria marathon, è roba per pochi eletti, una disciplina tosta, caratterizzata da lunghi percorsi, rigorosamente fuori strada, che coprono dislivelli imponenti. Johnny Cattaneo è uno dei più forti biker italiani, pedina fondamentale della nazionale italiana diretta da Hubert Pallhuber. Dopo un inizio di stagione segnato da un infortunio al polpaccio, il corridore bergamasco di Santa Brigida, non si è perso d’animo: è rimontato in sella con la grinta dei grandi, raccogliendo diversi piazzamenti e una vittoria. L’ultima tappa dell’Alpen Tour Trophy, gara a tappe internazionale riservata alle ruote grasse.

 

Ieri a Montebelluna, Johnny non è arrivato all’arrivo, ma è stato campione di generosità, mettendo da parte tutte le personali ambizioni da seconda punta per aiutare il compagno di squadra Mirco Celestino, vittima di una foratura a pochi chilometri dal via. Poi dopo aver riconquistato la posizione nel gruppo dei migliori, Johnny ha imposto il suo forcing, tenendo alto il ritmo della gara per scoraggiare eventuali attacchi degli avversari; ma, passato il giro di boa del chilometro 60, si è accesa la spia della riserva.

L’occasione, non eccessivamente esaltante sotto il profilo sportivo, è buona per farvi conoscere la sua storia, i valori che animano il cuore e le gambe di questo ragazzo campione delle due ruote.

 

Johnny la tua carriera sportiva è a dir poco originale. Ce la puoi raccontare?

«La mia è una famiglia di ciclisti, ma da ragazzino ho scelto l’atletica leggera. Vivendo in un paese dell’alta bergamasca, le possibilità erano poche: o si giocava a calcio oppure si correva sulla pista. Così ho cominciato con la corsa a piedi in montagna. Non mi andava di tirare calci ad un pallone come facevano tutti».

 

E hai anche ottenuto ottimi risultati in questa disciplina: nel 1999 un settimo posto al campionato del mondo, l’anno successivo un sesto posto sempre nel mondiale di specialità in Germania. Poi nel 2003 sali sul gradino più alto del podio del campionato italiano di mezza maratona, categoria promesse. E ad un certo punto ti converti al ciclismo…

«Avevo subito un infortunio che mi aveva provocato una lesione al quadricipite destro. La fase di riabilitazione prevedeva qualche seduta con la bicicletta. Così dopo essermi ripreso ho fatto prima qualche gara su strada, poi sono passato alla mountain bike (MTB) e dopo un paio di anni mi sono reso conto che potevo diventare un professionista di questo sport. Il ciclismo è stato un felice ripiego! Anche se nel periodo di preparazione invernale, qualche corsetta la faccio ancora».

 

Cosa rappresenta per te la MTB?

«La libertà! La libertà di gestirmi, affrontando le gare e gli allenamenti senza schemi prestabiliti. Sono cresciuto con la volontà di scoprire sempre qualcosa di nuovo: ho visto che solo la MTB mi dà l’opportunità di conoscere ogni volta percorsi e paesaggi diversi. Pedalando lontano dall’asfalto, stai alla larga dal traffico e non sei legato al vincolo imposto dalle strade che determinano il percorso dell’allenamento. Il bello della MTB è che puoi scegliere, inventare. È una libertà tecnica ed umana che porta l’uomo a stretto contatto con la natura».

 

Quando esci in bici, tra boschi e sentieri, senti di vivere questa armonia?

«Sì! E ti dirò di più… Queste sensazioni vado proprio a cercarle in particolare quando il ritmo degli allenamenti è meno serrato: durante le vacanze non ce la faccio a stare fermo per troppo tempo, così stanco degli schemi della vita, prendo la mia MTB e vado a farmi quattro pedalate senza troppe pretese».

 

Hai vissuto diverse “avventure” sportive. È difficile trovare un atleta che si è cimentato con successo in diverse discipline: lo sport ti ha formato anche come uomo o solo come atleta?

«È stato fondamentale per la mia formazione umana. Lo sport dà grossi insegnamenti: aiuta a maturare più velocemente, perché fa crescere il senso di responsabilità in tutto, a partire dalla scelta dell’attività sportiva da affrontare. E poi si impara a vivere dentro un team, dove sono presenti diverse personalità, si rispettano delle regole, si impara a comportarsi bene con il pubblico e tutto questo è solo d’aiuto per i giovani».

 

Il mondo dello sport oggi sembra essere dominato dall’arrivismo, dall’agonismo che impone la conquista del risultato a tutti i costi e con ogni mezzo. In questo contesto lo sport può ancora dare un messaggio di speranza, amicizia e fraternità?

«Lo sport sicuramente porta con se la speranza, l’amicizia e la fraternità. Io guardo con ammirazione i bambini di 6, 7, 8, anni. Loro non sanno nemmeno cosa sia il doping, pensano solo a farcela con le loro forze. Chi è più forte vince! La strada giusta per infondere questi valori è trovare delle persone competenti che vogliono far crescere sportivamente e non solo le nuove generazioni, trasmettendo loro la passione per ciò che si fa. Ho trovato questi valori durante gli anni dell’atletica. Sono stato fortunato perché sei anni fa, quando sono passato alla MTB, ho ritrovato gli stessi ideali tra la gente e gli atleti del movimento. Siamo una grande famiglia di amici».

 

Secondo te qual è la via da seguire per far si che si possa vivere ed insegnare il vero sport?

«Stage di allenamento per i giovani più promettenti finanziati dalle federazioni. Più sport a scuola, prendendo come esempio il modello dell’Alto Adige, dove una bella fetta del tempo scolastico la si passa praticando una attività ludica o sportiva. Infine mettere i giovani di fronte al divertimento e non al risultato. Bisogna rivedere la cultura dello sport. Lo slogan è: DIVERTIRSI!».

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