Jhonny & Warren: il colore nero

Se ne sono andati lo scorso settembre, portati via da un male incurabile. Due morti annunciate da tempo che tuttavia non accentuano il senso di perdita, tanto più grande in questo caso perché, con storie e modalità diverse, Johnny Cash e Warren Zevon hanno tracciato sentieri che ben difficilmente altri potranno o sapranno percorrere. Per quanto accomunati da una comune radice espressiva – la country-music – e dalla solidità dei rispettivi carismi, i due avevano ben poco in comune. Cash, originario dell’Arkansas, era una leggenda vivente, la bandiera forse più nobile, blasonata prestigiosa del countryfolk statunitense. Zevon, cresciuto nella west-coast del country-rock fino a diventare una dei cantautori più personali ed abrasivi di questi ultimi trent’anni. Johnny Cash calcava i palcoscenici fin dagli anni Cinquanta: Presley, Dylan, perfino gli Stones – per loro stessa ammissione – gli devono parecchio. Ma nonostante i dieci Grammy Awards e i cinquanta milioni di dischi venduti, nonostante le burrasche del passato (sette arresti, abusi di droga e alcool) e la ritrovata serenità della vecchiaia (grazie alla moglie si era riavvicinato alla fede cristiana), Cash ha sempre mantenuto una sobrietà esemplare, lontana anni luce dagli orpelli nashvilliani e dai capricci di molti dei suoi epigoni. Vestito perennemente di nero, lo sguardo intenso sotto il cappellaccio da cow-boy: lui e la sua voce baritonale che “aveva dentro l’inferno e il paradiso” come disse Nick Cave, un altro dei suoi infiniti debitori. Avrebbe potuto vivere di rendita, avrebbe potuto crogiolarsi nella rassicurante morbidezza del mito, ma Johnny ha preferito fino all’ultimo combattere le sue battaglie, impegnandosi per infinite cause b e n e m e r i t e (dai diritti per i carcerati all’ant i r a z z i s m o ) , continuando a fare dischi di straordinario rigore e intensità, perfino omaggiando colleghi – come Springsteen o gli U2 – che pure molto gli dovevano. Warren era diverso. Figlio di un ex pugile divenuto giocatore d’azzardo, s’era trasferito da giovane dalla natia Chicago al sole della California. Fu Jackson Brown a porre fine alla sua pluriennale gavetta lanciandolo come cantautore. Warren aveva uno sti- le tutto suo: un mix di energia e sarcasmo, condito da un senso del grottesco e dell’horror attraverso il quale raccontare le nevrosi e le debolezze dell’America moderna. La morte era sempre stata uno dei temi più cari; al punto che quando gli diagnosticarono l’incurabilità del tumore e tre mesi di vita, si rintanò in uno studio per provare a raccontarla in tempo reale e in prima persona. Ne venne fuori un piccolo capolavoro, The wind (Rykodisc) uscito appena qualche giorno prima della sua scomparsa. Intorno a sé aveva chiamato gli amici e colleghi più cari: oltre a Jackson anche Tom Petty, Springsteen, Ry Cooder e molti altri. Un testamento artistico e spirituale concentrato in un disco destinato – come quasi sempre accade in questi casi – a vendere molto di più dei precedenti, quasi sempre riservati ad un pubblico ristretto di irriducibili ammiratori. Troppo facile dire che ci mancheranno. Troppo facile anche dire il contrario, perché la loro arte è destinata a durare, a continuare ad accompagnarci, e a fare scuola. Ma null’altro del resto si può dire, se non aggiungere ciò che proprio Warren ha cantato nello struggente epilogo del suo album: “Stanno scendendo le ombre, e mi manca il respiro, tenetemi nel vostro cuore ancora per un po’” C’è un treno notturno chiamato quando tutto è stato detto e fatto. Tenetemi nel vostro cuore ancora per un po’”.

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