Jeffery Deaver a Roma tra letteratura e politica
«Qual è il segreto del mio successo quasi 30ennale e planetario? Ma siete voi, i miei lettori, il pubblico! Io scrivo sempre e solo quello che può piacervi, emozionarvi e farvi felici».
Parola di Jeffery Deaver, americano di Chicago con “bottega” a New York City, numero 1 mondiale della letteratura gialla e dintorni, autore di decine di best-sellers tradotti e venduti in tutto il globo.
Da alcuni capolavori sono stati tratti film di successo tipo il Collezionista di ossa (2002), con Denzel Washington e Angelina Jolie. Le parole dell’incipit, fra le tante che ha detto, sono state pronunciate ieri sera da Deaver durante la presentazione a Roma, nella libreria La Nuova Europa, al centro commerciale I Granai, del suo ultimo romanzo, Il taglio di Dio (titolo originale: The cutting edge), appena tradotto in italiano e pubblicato da Rizzoli.
Accoglienza da superstar, platea delle grandi occasioni, Jeffery è stato affiancato da due scrittori-giornalisti italiani, Daniele Autieri e Seba Pezzini, che gli hanno fatto le domande (traducendo anche quelle rivoltegli dal pubblico) e hanno tradotto dall’inglese le sue risposte.
Un bell’happening in piena regola, non c’è che dire, piacevole, interessante e colto, con un gigante letterario mondiale validamente stimolato e in vena di confessioni-rivelazioni sul suo lavoro, il suo universo creativo e perfino le sue idee politiche.
Cominciamo dall’ultimo nato, Il taglio di Dio. La storia è ambientata ancora a New York, stavolta nel mondo dei diamanti, della loro lavorazione e vendita. «Oggetti meravigliosi e misteriosi», ha detto Deaver, «che la natura, la terra ci mette millenni a produrre, e che da un lato possono unire le persone, quando li regalano per amore ad esempio, ma a volte dividono e distruggono, perché valgono economicamente molto».
Infatti le prime tre vittime della vicenda (che si hanno già alle pagine 1-2) vengono uccise nell’atelier di un grande produttore-mercante di diamanti. E da questa esplosiva violenza iniziale non si può neanche immaginare tutto quello che si scatenerà, descritto come sempre da Deaver con maniacale precisione unita a un’irresistibile attrazione sul lettore: due elementi di per sé antitetici che solo un genio del thriller sa coniugare.
Del resto è questo lo stile del nostro scrittore, il suo metodo di lavoro, e ieri sera ne ha parlato ampiamente.
«Io impiego 8 mesi per preparare un nuovo romanzo. Mi metto davanti alla lavagna, come i poliziotti, e comincio a riempirla di appunti, dati, post-it, fotografie, che poi via via sposto, avvicino o allontano, aggiungo o elimino a seconda di come la storia si sviluppi nella mia mente».
Alla fine il romanzo è già compiuto nel suo cervello, come il David nel blocco di marmo, e non resta che… scriverlo!
«Fatico molto, lo confesso, sia nel progetto che nella scrittura dei miei libri, due momenti complementari ma ugualmente necessari, entrambi impegnativi e logoranti. Non mi risparmio, ma ne vale la pena. L’importante dopo tutto è che il libro vi piaccia, vi trascini senza più mollarvi, vi emozioni fino a farvi sudare le mani, e alla fine vi renda felici, e vi dispiaccia di chiudere il libro».
Si è parlato anche della violenza, a proposito delle storie narrate da Deaver, con tutti quei personaggi che spesso non hanno tutte le rotelle. Giustamente Autieri, introducendo questo tema, osservava che la violenza nei libri di Jeffery non è mai esagerata né volgare. «Rappresentare la violenza in modo eccessivo è già un fallimento creativo», ha puntualizzato al riguardo l’autore.
«Il mio modello è Hitchcock (non Saviano, avremmo aggiunto noi…!) e punto ad emozionare il lettore, non a sconvolgerlo. Voglio essere forte, non violento. La troppa violenza è una banalizzazione stilistico-letteraria, e io cerco la suspence. Tra i vari cultori del nostro genere, io sono uno scrittore della suspence».
La politica, accennavamo. Autieri l’ha abilmente insinuata. Trump, Salvini, la leva odierna sulla paura… che ne pensa il re made in Usa dei giallisti?
«Non voto per Trump e non lo rispetto», ha detto senza reticenze, «specie da quando durante la campagna elettorale l’ho visto deridere un giornalista disabile, tra l’altro molto in gamba. L’America attraversa un periodo difficile, c’è una polarizzazione che prima era impensabile. Ci vogliono politici diversi, persone nobili, con capacità di mediazione. Tutto quello che Trump non ha».
E sulla politica Deaver è tornato quando, al momento delle domande del pubblico, gli ho chiesto se è mai stato tentato di scrivere qualche sceneggiatura e, più in generale, quale differenza vede tra lo scrivere per il cinema e la narrativa vera e propria.
«Una sceneggiatura l’ho appena finita», mi ha risposto «e tratta (udite udite…!) dei morti ammazzati dalla polizia negli Stati Uniti. Sono troppi ormai, e guarda caso appartengono quasi sempre a qualche minoranza etnica».
Ogni commento è superfluo. Il principe del thriller mondiale è un buon liberal. Anche se ha precisato, alla fine, che gli Usa, in proporzione alla loro grandezza e popolazione, non hanno troppi immigrati. «Questo fenomeno, rispetto a qualunque altro Paese, ha coinvolto soprattutto voi italiani».