Je suis haïtien*

Ritratto di un Paese che attraversato drammatiche prove storiche e che, dopo l’allontanamento dell’ex presidente Aristide, si apre alla speranza della democrazia [aprile 2004]
Jean Bertrand Aristide viene da una famiglia povera. Diventato sacerdote salesiano, ha aderito alla teologia della liberazione, che ha trasformato in vera e propria ideologia politica: dalla sua chiesa della bidonville di Cité Soleil ha preparato la propria ascesa. I poveri hanno cominciato a riconoscerlo come un moderno “messia” e lo hanno votato, portandolo alla presidenza della Repubblica nel 1991. Ma già nel settembre dello stesso anno un colpo di Stato militare lo toglie dal potere e lo costringe all’esilio negli Stati Uniti. Nei tre anni che seguono Aristide coltiva i rapporti con l’amministrazione democratica statunitense, in particolare con il “Black Caucus” (l’insieme dei parlamentari democratici neri degli Usa), che continuerà a sostenerlo fino alla fine.

L’intervento dei marines mette fine al colpo di Stato, e gli Usa reinsediano Aristide alla presidenza nell’ottobre 1994. Fin dai primi giorni, comincia il processo di accentramento del potere intorno al presidente che finirà per svuotare completamente di autonomia la politica haitiana. Alla scadenza del mandato, Aristide fa eleggere un suo uomo, per riprendere poi la presidenza nel 2001, con elezioni alle quali partecipa non più del 15 per cento degli aventi diritto. Lavalas, il partito di Aristide, nel frattempo è diventato una sorta di “partito unico”: le elezioni del 2000 avevano consegnato al partito di governo il 90 per cento dei seggi. I candidati dell’opposizione si erano ritirati tutti prima del ballottaggio, per protesta contro i pesanti e documentati brogli elettorali; il presidente del comitato elettorale si era rifiutato di firmare i risultati e, minacciato di morte, aveva lasciato l’isola con tutta la famiglia: la legittimità del parlamento non è riconosciuta neppure dalla comunità internazionale.

Sul presidente gravavano pesanti sospetti, diventati ad un certo punto certezze, di complicità nel traffico della droga: si spiega così come il suo patrimonio personale sia superiore al bilancio di ogni Stato dei Carabi; e si spiega come ancora oggi possa contare su sostegni e complicità comprati col denaro e con l’intreccio di affari. Su pressione statunitense, Aristide ha consentito, ad un certo punto, che fossero arrestati, qui in Haiti, alcuni grandi trafficanti di droga che, vistisi traditi dal presidente, hanno indicato il lui il grande capo del commercio della droga. Si tratta di dichiarazioni ufficiali, che spiegano come la droga passi da Haiti, in provenienza dalla Colombia, per arrivare negli Usa. Jacques Ketang, padrino di battesimo di una delle figlie di Aristide, ha spiegato che doveva pagare una sostanziosa tangente al presidente per mantenere in piedi il traffico. Aristide, su pressione statunitense, ha dovuto permettere che Ketang venisse arrestato; gli statunitensi, avendo subodorato che difficilmente il trafficante sarebbe arrivato vivo nelle loro mani – il fratello era già stato ucciso -, sono riusciti a prenderlo prima che venisse fatto fuori. Attualmente sta scontando 25 anni.

Aristide dispone non soltanto delle forze di polizia, ma anche delle “Organizzazioni popolari”, nate per sua iniziativa nei primi tempi del suo accesso al potere; allora, avevano anche una connotazione politica e ideologica, in assenza di consolidate strutture di partito e di istituzioni democratiche. Successivamente l’elemento ideologico si è affievolito fino a scomparire, e sono rimaste in piedi come organizzazioni armate più simili alla malavita organizzata che a gruppi politici. In tutto il Paese sono guidate da facinorosi; si dedicano al taglieggiamento delle attività produttive e commerciali, ai furti privati, alle intimidazioni. Fino a che punto Aristide le controllasse è difficile dire: le condizionava e ne era condizionato: erano la sua massa di manovra, ma, proprio per questo, non poteva liberarsene. Oggi, dopo la sua partenza, rimangono un problema.

 

Un Paese spezzato

 

Negli ultimi anni sono state molto numerose le “missioni” diplomatiche internazionali, in particolare quelle dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), che hanno cercato di sbloccare la situazione politica e portare maggioranza e opposizione ad un accordo. Qualche volta si è anche raggiunta un’intesa di massima, rimasta però inapplicata. La marcia di Aristide verso la costruzione di una vera e propria dittatura, e la conseguente paralisi politica, fanno precipitare la credibilità del Paese: la comunità internazionale non ha alcuna garanzia che il governo in carica riesca ad applicare in maniera razionale favorevole alla popolazione un qualunque piano nel settore sanitario, o educativo, o economico.

Di conseguenza, i crediti e gli aiuti internazionali sono bloccati. L’economia è ferma. La gente tira avanti con le rimesse (800 milioni di dollari all’anno) degli emigrati, con gli aiuti delle numerose organizzazioni non governative operanti nell’isola, con l’azione caritativa delle Chiese. Haiti importa dieci volte più di quello che esporta. L’economia è a pezzi, già strangolata dall’embargo deciso ai tempi del colpo di Stato. Chi può, fugge.

Ma, soprattutto, è ferito l’orgoglio. La prima volta che arrivai in questo paese, nel 2001, mi fermai a Miami per cambiare aereo. Il tassista, ad un semaforo, si era fermato a parlare attraverso il finestrino con un altro tassista. Gli ho chiesto: “Che lingua ha usato?”. Era riluttante, poi, con una certa forza: “È creolo. Lo sa che cosa è il creolo?”. Non gli andava di dire che viene da Haiti, ed è diventato aggressivo, in difesa della propria nazionalità, quando ha dovuto ammetterlo. In un libro di Marc L. Bazin, Primo ministro ad Haiti tra il 1992 e il 1993, trovo un episodio analogo. Bazin, negli anni Ottanta, era in taxi a New York e, riconoscendo un haitiano nel tassista, gli aveva chiesto da dove provenisse: “Da Cuba”. Per un po’ erano rimasti in silenzio; poi il taxista, accortosi dell’incredulità di Bazin, aveva accostato e gli aveva detto: “Bazin, dopo 25 anni che sono partito, Haiti non mi dà che vergogna: Duvalier, i tontons macutes, le immagini dei massacri, la miseria di Cité Soleil e di Cité Carton, i cadaveri dei boat people sulle spiagge della Florida, i dittatori fatti fuggire in piena notte da aerei stranieri, e adesso? L’Aids. Bazin, sono stanco di avere vergogna. Non dico più che sono haitiano”.

Eppure, Haiti è stata la prima Repubblica nera: un punto di riferimento per tutte le lotte di liberazione dei popoli dell’America Latina. Haiti ha espresso figure umane leggendarie, come quella di Toussaint Louverture, un vero e proprio genio nero che riuscì a trasformare una insurrezione di schiavi in un progetto di liberazione politica nazionale. Il popolo haitiano ha un orgoglio che la miseria non riesce a distruggere.

La povertà è totale. Ma ciò che mi colpisce è la bellezza di questo popolo, che non si è lasciato andare. E tutti, specialmente nei giorni di festa, vestono con una semplice eleganza, specialmente i poveri. Non è per nascondere la povertà. Attraverso il vestito esprimono una intuizione di loro stessi, la consapevolezza della bellezza del loro vero essere. Ciascuno sembra dire: lo so che in questa vita non realizzerò ciò che veramente sono, ma mi vesto come se lo avessi realizzato, per dire chi sono veramente. È sconvolgente attraversare il nulla materiale di questa gente, passando attraverso camicie immacolate e vestitini inamidati riempiti solo di speranza.

Tra il popolo c’è molto analfabetismo; specialmente nelle campagne, l’ignoranza impera. Ma esiste anche una classe intellettuale raffinata, che ha studiato in Francia o negli Stati Uniti: i più sono rimasti all’estero; ma molti sono tornati, nella speranza di risorgere non individualmente, ma insieme al loro popolo. La cultura e l’intelligenza, in una condizione di miseria, dà una consapevolezza del dolore che lo rende molto più acuto.

Ero arrivato ad Haiti su richiesta dell’Arcidiocesi di Port-au-Prince, per studiare la possibilità di dare vita ad una scuola di formazione politica per i giovani. L’esperienza delle scuole italiane “Res nova” e del Movimento politico per l’unità di Chiara Lubich si era fatta conoscere fin lì. Sapevo come si fa una scuola, anche se ero cosciente che ogni Paese ha una originalità che può cambiare le carte in tavola. Ma non mi aspettavo quello che, in effetti, ho trovato.

 Dall’aeroporto comincia la migliore strada di Haiti, che passa davanti alla residenza del presidente Aristide. Molta gente vive per la strada, accanto ai commerci minimali che riesce a gestire. Tre cerchioni di macchina e pochi copertoni, il tutto di seconda o terza mano, fanno un gommista. Un calderone acceso per terra fa un ristorante. Un tavolino con cocomeri e verze fa un negozio di frutta e verdura. Una rastrelliera con vestiti di cotone usati fa una boutique. Passando per questa strada capisco il perché degli enormi borsoni che i passeggeri cercavano di imbarcare da Miami: erano pieni di roba usata da rivendere.

Mi dicono che c’è una certa attesa di incontrare il “professor Baggio”. Ma c’è poco da fare il professore; che cosa ho da insegnare io ad un uomo che vive per la strada insieme alla sua famiglia? Ad una donna che trascina una tanica d’acqua dopo aver fatto la fila al rubinetto della strada? Ai piccoli imprenditori che lavorano ai loro commerci su bancarelle traballanti?

Duecento anni fa, durante la loro rivoluzione, gli haitiani proclamarono, come a Parigi, ma contro Parigi, “libertà, uguaglianza, fraternità”. Che cosa ne è rimasto oggi? Haiti, pensavo, non ha né libertà né uguaglianza: entrambe, poi, a questo punto, non dipendono da lei, ma dall’azione degli altri. La fraternità, invece, gli haitiani possono realizzarla senza dipendere da nessuno e, a partire da questa, cercare di muoversi anche verso le altre due. Ma è la cosa più difficile, con un passato recente di persecuzioni, torture, omicidi politici: oltre 40 mila dal 1971 al 1985, sotto il regime del figlio di Duvalier; e altre migliaia dal 1992, sotto il golpe militare. Ma ad Haiti ho trovato chi è pronto ad accettare questa sfida, ad unirsi per raggiungere un obiettivo di bene, sia esso una scuola o un nuovo regime politico.

Questi i miei pensieri di quattro anni fa. Oggi, dopo la partenza di Aristide, la situazione è cambiata, si sono aperte le possibilità che fino a ieri sembravano un sogno. Come ci si è arrivati?

 

Il caso Metayer

 

Il 17 dicembre 2001 ci fu quello Aristide chiamò un tentativo di colpo di Stato, peraltro non riconosciuto come tale da una commissione successivamente inviata dall’Organizzazione degli Stati americani (OEA). Si trattò in realtà di una messa in scena che ebbe come risultati intimidazioni alla stampa e la distruzione di alcune sedi dei partiti di opposizione. A Gonaïves, in particolare, ci furono due omicidi, uno dei quali perpetrato contro il responsabile del partito di opposizione “Mocrena”, al quale distrussero anche la casa. Il colpevole universalmente riconosciuto era Amiot Metayer, un noto capobanda che aveva dato alla sua “organizzazione popolare” il nome, singolarmente appropriato, di “Armée cannibale”, e operava a Gonaïves, di fatto, per conto del presidente, per reprimere qualunque forma di scontento e opposizione.

All’interno delle pressioni che l’OEA faceva sul presidente Aristide perché desse segni di applicare una qualche forma di giustizia, spiccava proprio il nome di Metayer. Aristide, nell’agosto del 2002, si decise a sacrificarlo e lo fece arrestare e portare a Port-au-Prince. I “cannibali” di Metayer, naturalmente, presero a fare l’ira di Dio, tanto che Aristide lo rimandò a Gonaïve, per dare modo ai suoi fedeli di assaltare la prigione e liberarlo. A Metayer, però, la faccenda aveva fatto saltare la mosca al naso, e cominciò a promuovere agitazioni con la richiesta esplicita di cacciare Aristide dal paese. La farsa durò circa un mese, dopo di che il buon Metayer tornò al ruolo di prima: quanto sia costato ad Aristide il ritorno alla fedeltà dei “cannibali”, non è dato di sapere.

Nel settembre del 2003, è il turno del nuovo ambasciatore statunitense ad Haiti di avanzare delle richieste. IL discorso può essere riassunto più o meno in questi termini: ti lasciamo al potere fino alla fine del mandato, ma devi dare prove concrete di ristabilire la legalità nel campo del traffico di droga e della giustizia. Due giorni dopo l’incontro dell’ambasciatore con Aristide, Metayer viene trovato massacrato; il membro della banda che lo aveva tradito, venuto a Port-au-Prince a riferire, viene ucciso a sua volta.

Ma fu il modo sadico con il quale venne ucciso Metayer, a scatenare il furore dei suoi: l’Armée cannibale si rivolta nuovamente contro il presidente; cacciare Aristide per vendicare Metayer diviene una missione “mistica” per l’Armée cannibale. Da allora, di fatto, il governo perde il controllo di Gonaïve, al punto che il primo gennaio di quest’anno, quando Aristide vi si reca per il duecentesimo anniversario dell’indipendenza, che fu proclamata proprio in quella città, riesce a fermarsi soltanto per mezzora, nonostante la scorta personale rinforzata da militari sudafricani.

Il 5 febbraio l’Armée cannibale alza il livello dello scontro: assalta la caserma della polizia e assume il controllo totale della città.

A quel punto arriva Guy Philippe. 36 anni, ex commissario di polizia addestrato in Equador, due anni fa aveva lasciato Haiti perché sospettato di un tentativo di colpo di Stato. Che cosa ci sia dietro queste accuse è difficile dire; sta di fatto che, con Philippe, lasciarono il Paese alcuni altri funzionari di polizia: tutta gente che difficilmente si sarebbe adattata al progetto di Aristide, che tra il 2002 e il 2003 aveva messo a capo della polizia uomini suoi, scavalcando e spodestando i poliziotti di carriera. Un’azione che Aristide pagherà cara: al momento dell’insurrezione, la polizia, che evidentemente non aveva alcun senso di fedeltà nei confronti del presidente, si è sciolta come neve al sole.

Guy Philippe, rifugiato nella Repubblica Dominicana, oltre agli ex poliziotti, ha coalizzato intorno a sé anche gli ex militari che, nel 1994, Aristide aveva messo sulla strada, sciogliendo l’esercito senza riconoscere alcun diritto, dopo il suo ritorno imposto dagli Stati Uniti. Ha costituito così una nucleo di non più di due-trecento uomini, armato in maniera approssimativa, col quale ha lanciato l’insurrezione ad Haiti. La facilità con la quale questo ridotto contingente ha fatto cadere una dopo l’altra le varie città nella sua marcia di avvicinamento alla capitale, dà l’idea della fragilità strutturale delle istituzioni di questo paese.

Arisitide non era in grado di difendere la capitale e neppure se stesso: questo è stato l’argomento con il quale statunitensi e francesi hanno “convinto” il presidente ad abbandonare.

 

Un’azione di popolo

 

Ma la resa di Aristide non è frutto solo dell’azione di Philippe e delle pressioni internazionali: gli haitiani se la sono conquistata. Gli studenti, anzitutto, hanno giocato un ruolo importante. Fin dall’autunno avevano deciso di assumersi il rischio di uno scontro diretto, dichiarando sistematicamente la loro opposizione al governo e al presidente. Si tratta di giovani che provengono, prevalentemente, dalla piccola classe media, che subisce in modo tragico la situazione del Paese. Il 5 dicembre 2003, per la prima volta nella storia di Haiti, la polizia, accompagnata anche dalle squadracce di Aristide e da gente del partito di governo “Lavalas”, è entrata nell’università, ha picchiato gli studenti e spezzato le gambe al rettore. In seguito a questi fatti, tutto ha cominciato a vacillare, è sorto un movimento di opposizione dal basso che non aveva precedenti, e che si è sommato agli avvenimenti dei mesi successivi.

La “Convergenza democratica” (composta dai partiti di opposizione) e il “Gruppo 184” (che raggruppa altrettante organizzazioni della società civile: sindacali, studentesche, femminili, professionali, ecc.) si sono riuniti nella “Piattaforma democratica”, che rappresenta ormai l’insieme delle coscienze libere del Paese.

Al culmine della crisi gli Stati Uniti, in particolare nella persona di Roger Noriega, sottosegretario del Dipartimento di Stato Usa per l’America Latina, cercano una mediazione fra il presidente e la società civile all’opposizione. Il 20, 21 e 22 febbraio sono giorni cruciali, durante i quali gli Stati Uniti esercitano il massimo della pressione sulla “Piattaforma democratica” perché accetti un compromesso con Aristide che, determinando un cambiamento della situazione, faccia rientrare la rivolta. Pressione che si concentra soprattutto su Andy Aped, portavoce della Piattaforma. Colin Powel gli telefona tre volte. Ma Aped tiene duro, e la risposta è sempre la stessa: “Arisitide è il problema; non si può risolvere il problema se si lascia in piedi la sua causa”.

Da tempo ormai i leaders dell’opposizione, come accade in ogni periodo “caldo”, dormono ogni notte in un posto diverso. In quei giorni, poi, il pericolo era ancora più intenso: e può venire sia dalle bande armate sostenitrici di Aristide che, a Port-au-Prince, possono spadroneggiare, sia da qualche apparato di “intelligence” che potrebbe non gradire il rifiuto che la “Piattaforma democratica” oppone alla soluzione proposta dagli Stati Uniti.

Il 25 febbraio, mercoledì delle Ceneri, la Francia prende posizione direttamente contro Aristide; e finalmente, fra il venerdì sera e il sabato mattina, la Casa Bianca fa propria questa posizione. Aristide capisce di avere le spalle al muro e nella notte tra il sabato e la domenica, pressato dagli ambasciatori di Usa e Francia, scrive la lettera di dimissioni. Parte il 29, la mattina presto, intorno alle sei e mezza: nello stesso momento in cui il papa, all’Angelus (Roma è avanti di sei ore), chiede alle autorità haitiane di trarre le conseguenze dalle situazione. Una posizione della Santa Sede che, certamente, era già nota nel circuito diplomatico. Anche la Conferenza episcopale haitiana, del resto, premeva sul presidente, per un cambiamento radicale, fin dal mese di novembre.

La partenza del presidente è stata accompagnata da un aumento della violenza delle bande armate, che negli ultimi giorni Aristide aveva già scatenato per creare un disordine nella capitale che inducesse la comunità internazionale a intervenire a suo favore. Ruberie e devastazioni hanno interessato soprattutto la zona del porto e il quartiere degli affari nel centro storico, causando danni per centinaia di milioni di dollari. Ancora il 7 marzo una manifestazione dell’opposizione è stata attaccata dalle “chimères”, bande legate ad Aristide, che hanno ucciso 5 persone.

Ma nei giorni successivi alla resa di Aristide non accade solo questo. Si realizza, anzi, qualche cosa che ha del prodigioso: in soli 17 giorni e nel pieno rispetto della legalità, si sceglie un nuovo presidente della Repubblica, un “Consiglio dei saggi”, rappresentativo delle principali realtà del Paese, che dovrà indicare le linee di azione durante il periodo di transizione; si nomina un nuovo Primo ministro che in quattro giorni presenta un governo “tecnico”. Subito dopo, si compone un “Consiglio elettorale”, che dovrà organizzare e gestire le prossime elezioni: presidenziali, politiche, amministrative.

L’allora Nunzio della Santa Sede ad Haiti, l’italiano S. E. Mons. Luigi Bonazzi, una delle personalità che con impegno intelligente e costante hanno maggiormente aiutato il Paese in questi anni, dichiarava: “La decisione del presidente Aristide di dimettersi, e la pronta accettazione di tali dimissioni da parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu, sono state un fatto salutare per il paese, che ha ora la possibilità di scrivere una pagina nuova della sua storia. C’è oggi uno sforzo sincero da parte dell’opposizione, della società civile, e della componente moderata dell’ex partito di governo “Lavalas”, di collaborare per superare il vizio inveterato dell’esclusione, in base al quale quando qualcuno, in passato, prendeva il potere, lasciava fuori gli altri. C’è la volontà di collaborare, di gestire insieme il Paese soprattutto in favore dei poveri che sono i veri esclusi”.

È in queste parole, credo, la chiave per comprendere l’opportunità storica che si è aperta ad Haiti, la sfida di sottrarsi a quella sorte di “maledizione haitiana” in virtù della quale chi arriva al potere si trasforma in tiranno. Oggi ad Haiti esiste la volontà di costruire insieme, esistono intelligenze e capacità che hanno deciso di mettersi al servizio del bene comune e non alla ricerca del potere personale. Esiste davvero l’opportunità perché ciascuno possa tornare a dire, con fierezza: “Je suis haïtien”.

 

* Questo testo è stato scritto nell’aprile 2004 ed è stato parzialmente pubblicato da “Città nuova”, n. 10, 25 maggio2004.

 

 

 

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