Jannacci & Califano: la morte che avvicina
Lontani e diversi. Per indole, background, stile, vicissitudini, talento. Difficile immaginare due grandi firme del nostro cantautorato più antitetiche di quelle di Enzo Jannacci e Franco Califano. Capita spesso, del resto, quando ci si imbatte in soggetti capaci d’essere, insieme, dei prototipi e dei caposcuola.
Il dottor Jannacci ostentava il suo snobismo alla milanese fin dalla parlata; nelle interviste – non meno che nelle sue canzoni – biascicava le parole con un’indolenza che arrivava a dar sui nervi: qualsiasi domanda sembrava dargli fastidio, allo stesso modo in cui ogni strofa pareva procurargli un’immensa fatica. L’opposto della sbruffoneria da guitto di borgata che ha sempre accompagnato er Califfo.
Eppure nell’intimo entrambi erano piuttosto diversi da ciò che la scorza lasciava presagire. Sotto la poetica bislacca e stralunata delle sue storie e dei suoi personaggi Jannacci era un lucidissimo analista delle nevrosi e delle debolezze dei suoi contemporanei. Uno capace d’ammantare di misericordia e dignità personaggi costretti ai margini da quella società consumista che faceva da sfondo e da catalizzatore creativo degli anni ruggenti della sua carriera, quelli seguenti al sodalizio con Gaber, quando amava spaziare tra il jazz e il rock’n’roll: gli anni della memorabile El purtava i scarp del tennis, di Vengo anch’io, no tu no che gli valse la vetta delle classifiche, o di quella meravigliosa litania di stereotipi e di verità amarissime che fu Quelli che. Storie di perdenti e di “casi umani” tracimanti di dolore, sarcasmo, ironia e comicità, molto spesso infilati gli uni nelle altre. Un popolo sgangherato, di ultimi e di balordi, vibrante di malinconia e di indignazioni mai ostentate, epperò graffianti e beffarde come poche altre.
Idem dicasi per Califano, la cui vita spericolata ed eccessiva da latin-lover, sempre in precario equilibrio tra cinismo e romanticismo, finiva regolarmente per oscurare l’ispirazione di un poeta della canzone in grado di sfornare versi memorabili per conto terzi, come E la chiamano estate (per Bruno Martino), La musica è finita (per la Vanoni), Minuetto (per Mia Martini), Un grande amore e niente più (con la quale Peppino di Capri vinse il Sanremo del ’73). Per sé tenne solo brani da toni fortemente autobiografici, come l’indimenticabile Tutto il resto è noia destinata a venir considerata fin da subito come il suo più sincero manifesto esistenziale.
Successi e chiaroscuri hanno trapuntato la carriera di entrambi. Anni di depressioni o di derive dove la vena ispirativa sembrava estinta o riprodursi in banali riciclaggi dei rispettivi cliché. Entrambi han tenuto botta, senza mai nascondere le proprie difficoltà: fisiche, umorali, o spirituali che fossero. E tutti e due se ne sono andati senza far rumore, ritrovando all’istante, come quasi sempre accade in questi casi, affetto, riconoscenza, e plausi universali più o meno giustificati. Di certo non lasciano eredi, tutt’al più epigoni.
Richiamati alla base a poche ore l’uno dall’altro, più che accomunati dall’ineluttabile livella di un doppio epilogo ci piace immaginarli al futuro, magari a progettare il più inverosimile dei duetti; mentre qui di sotto in molti già s’affannano a rinverdirne il ricordo: per Jannacci un album appena inciso di rivisitazioni delle sue vecchie ballate che dovrebbe uscire in autunno, e per il Califfo, una più che probabile antologia dei suoi cavalli di battaglia.