James Levine

Musiche di Weber, Beethoven, Ligeti e Brahms. Münchner Philarmonilker. Roma, Accademia Santa Cecilia. Èun fenomeno – a trent’anni era già direttore principale del Metropolitan di New York -, una star mondiale della bacchetta, privilegiato dai Wiener e dai Berliner, di cultura estroversa. Ma sul podio, James Levine, 58 anni, di Cincinnati, non fa scena: è sé stesso. Può dirigere tutto – e lo fa – perché esperienza, tecnica, gusto e intelligenza glielo permettono. I 125 Filarmonici, la prima volta a Roma in 109 anni di vita, dopo gli anni con il “carismatico” Celibidache, si sono affidati a lui (fino al 2004). Levine, grande e rubicondo, propone un programma “enciclopedico”: esordisce con le finezze magiche e le pastosità romantiche di Weber (Oberon), continua con la Settima beethoveniana, morbidamente scuro nell’Allegretto, titanico nel Finale; ottiene sonorità traslucide e vetrose in Lontano di Ligeti, e cavalca, un po’ hollywoodianamente, la Quarta di Brahms. L’impressione di lui, è di unavitalità entusiasta e felice, ma anche misurata nel senso che non cede mai alla platealità: il gesto è quello “necessario”, composto o mosso, musicalissimo comunque. I Münchner lo seguono, ma hanno la loro personalità: compatte e luminose le file degli archi, calde le prime parti di legni e ottoni (memorabili corno e clarinetto): un suono preciso, cantabile, talvolta solare, con variazioni di colore all’interno del medesimo brano; forse più lussuoso che commosso. Come Levine. Ovazioni del pubblico, nessun bis. I concerti dell’orchestra di Roma e del Lazio arcà, Petrassi & Beethoven Rapido e frizzante il Blitz per orchestra (1999) di Paolo Arcà, uno fra i più notevoli compositori contemporanei. Colorato, mai ripetitivo, un lampo in tre parti, sgorgato in un momento di spontaneità. Il Ritratto di don Chisciotte, suite dal balletto di Petrassi (1945) in quattro danze, rivela un diverso intento: più che la storia dell’avventura del cavaliere, una meditazione astratta sul suo “interno affanno”, contrappuntata da ritmi e timbri sgargianti, di sicuro virtuosismo sonoro. Dopo il contemporaneo, l’Orchestra romana torna al “classico”, nella beethoveniana Pastorale. Scartata ogni ideologia di immanentismo o panteismo misterioso, Lu Ja, cinese di Shanghai, 38 anni, direttore di sicura scuola e di grande comunicativa, apre una schiarita su una partitura fin troppo esplorata. La presenta così com’è: una visione esperienziale della gioia di vivere dentro la natura, con i suoi sereni e le sue tempeste. Naturalmente, detta da un Beethoven: il che significa ricchezza di sfumature, di dinamiche, di colori, e spessore di vita. La giovane orchestra, curata dal gesto sensibilissimo di Lu Ja, nonostante alcuni momenti di poca omogeneità, lo segue con coraggioso impegno ed un suono fresco, sia nei lampi di Arcà, che nelle astrazioni di Petrassi fino all’affresco beethoveniano. Meritato successo di pubblico per una compagine che, nata nel ’91, si sta facendo avanti a conquistare sempre maggiori consensi.

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