Jago e il suo “Figlio Velato”

Donata a Napoli la straordinaria scultura che raffigura il sacrificio di tanti bambini profughi annegati nel Mediterraneo
foto da pagina fb autore

Giorni che precedono il Natale. Leggo su Dio si è fatto bambino, edito da Città Nuova, una toccante meditazione sui bambini di Klaus Hemmerle, vescovo di Aachen (Aquisgrana) autore di numerose opere filosofiche, teologiche e spirituali (1929-1994).

Dice l’autore: «I bambini appartengono ai loro genitori, alla loro famiglia, ma al tempo stesso appartengono a noi, a tutti. Sono per così dire un “bene comune”. In certo qual modo vale per i bambini in genere, cioè per ogni bambino, ciò che il profeta annunziò di un bambino: Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio (Is 9,5). I bambini sono doni, doni fatti a noi, a tutti. Cosa ci viene donato, in loro? Risposta: il futuro. Questo è ovvio: se non ci fossero bambini l’umanità non avrebbe futuro. Ma la nostra risposta ha un senso più profondo. Istintivamente sperimentiamo il bambino come una promessa, come l’aurora di quel futuro migliore che ci auguriamo. A un bambino non chiediamo soltanto: Che futuro hai? Ma anche: Quale futuro ci porti? E in effetti come sarà il futuro, cosa succederà o non succederà dipende da coloro che sono bambini oggi. Il futuro è già nato, nei bambini che nascono».

Fin qui il brano di Hemmerle. Poco dopo la mia meditazione prosegue, ma in una direzione del tutto diversa. A provocarla è una notizia appresa da Internet riguardante l’opera di un giovane scultore autodidatta, che ha ereditato l’amore per il marmo dalla madre scultrice: è Jacopo Cardillo, nome d’arte Jago, originario di Anagni (Frosinone), ormai noto anche all’estero e pluripremiato per un’arte geniale la cui cifra è una cura maniacale del dettaglio.

L’opera in questione è Il Figlio Velato, titolo che evoca immediatamente un’altra meravigliosa scultura alla quale in effetti s’ispira: il celebre Cristo Velato di Giuseppe Sammartino, che attira visitatori da tutto il mondo nella cappella Sansevero a Napoli.

In quest’opera di due metri per uno e 50 centimetri di altezza, destinata anch’essa a rimanere a Napoli, con sede definitiva – dal 21 dicembre – nella chiesa di San Severo alla Sanità (cappella dei Bianchi), Jago ha rappresentato con straordinario realismo un bambino morto, il pancino gonfio dell’annegato, ricoperto da un velo le cui pieghe convulsamente scomposte dicono tutto il dramma di un morte violenta e di un futuro mancato.

Per realizzarla, grazie ai fondi raccolti da mecenati statunitensi, lo scultore ha dovuto superare sé stesso, lavorando dieci ore al giorno per quattro mesi in un laboratorio di Long Island (New York).

Prima ha plasmato in argilla il bambino privo del velo, poi ha adattato al corpicino il velo stesso. Ottenuto così il modello, ha affrontato col martello elettrico il blocco di marmo da lui stesso scelto nelle cave del Vermont: quel Danby bianco con venature grigio-nere che ha preso forma docile come burro. Con strumenti via via più delicati e pazienza certosina ha successivamente rifinito le pieghe del velo fino a ottenere l’effetto trasparenza.

Il risultato sorprende e commuove: una sfida all’immagine iconica del Cristo del Sammartino? «Partendo da un’immagine che tutti comprendiamo perché è sedimentata nella nostra cultura, l’immagine del sacrificio, ho voluto parlare di altro: il sacrificio di chi viene sacrificato oggi contro la sua volontà – spiega Jago in alcune interviste –. Siamo infatti bombardati da immagini di bambini vittime di violenze, abusi. Non c’è consapevolezza nel loro sacrificio, c’è consapevolezza da parte di chi li sacrifica. Come altri artisti del passato, non invento nulla. È il modo in cui lo fai che può renderlo geniale. La mia è una citazione, ma non ha niente a che vedere con l’idea cristiana del sacro».

Niente a che vedere con l’idea del sacro? È vero, sotto quel velo appare solo un povero bambino profugo a rappresentare gli innumerevoli altri mai arrivati a toccare un porto di salvezza. Eppure, per il credente, questa scultura rimane una potente raffigurazione del Cristo morto per amore, di cui ogni uomo è immagine, tanto più un bambino. E insieme, vuol essere un monito perché il futuro non abbia più a mostrarci immagini di tale sacrificio innocente.

Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, l’opportunità di esporre al pubblico una simile rappresentazione di morte negli ultimi giorni che precedono la festa del Natale di Cristo. Ebbene, la Chiesa ha sempre posto in risalto il suggestivo parallelismo tra le fasce con cui venne avvolto il neonato Gesù e le bende funerarie con cui Giuseppe d’Arimatea ne avvolse il corpo deposto dalla croce: ciò che viene espresso anche da tante immagini pittoriche di epoca bizantina e non solo, nelle quali la mangiatoia è raffigurata come un’arca sepolcrale.

Lampante la lezione che ne deriva: Cristo, assumendo la natura umana, ha assunto la nostra morte, e quale morte! Venendo «fra i suoi», è venuto al mondo per morire: morire per la sua gente.

Anche per questo Il Figlio Velato di Jago potrà offrire spunti di riflessione a quanti andranno a visitarlo a Napoli in San Severo alla Sanità.

 

 

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