Ius soli. Questione di prospettive

È un fatto strategico parlarne a ridosso di elezioni comunali e regionali. Ma al di là di quello che ci vogliono far credere, il tema riguarda solo noi italiani che ancora non vediamo quanto l’Italia sia già cambiata

Alzare il tono del dibattito sullo ius soli nei giorni precedenti il ballottaggio nei comuni che devono eleggere il sindaco e a pochi mesi dalle elezioni regionali (in Sicilia si voterà a ottobre), è davvero un fatto strategico: in questo modo i vari candidati possono cavalcare l’onda della paura dello straniero terrorista che ruba il lavoro agli italiani e cercare di strappare qualche voto agli avversari. Che ormai dicono più o meno le stesse cose, ossia che la situazione dei profughi deve cambiare.

Leggendo le diverse reazioni, soprattutto su Facebook, sono evidenti le preoccupazioni legate al diffuso senso di invasione da parte dei profughi ed è sempre più chiaro che il mondo cattolico, in buona parte, ritiene che sia già stato ampiamente superato il limite massimo dell’accoglienza.

Direi che l’approccio al tema ius soli dovrebbe essere visto in una prospettiva di lunga durata, sia verso il passato che verso il futuro. Se guardiamo al passato, è chiaro che un ragazzo oggi diciottenne, nato e cresciuto in Italia, che parla correntemente due o tre lingue, che ha studiato un po’ tra i suoi connazionali e moltissimo con i suoi coetanei italiani, non può che sentirsi più italiano che straniero. Se guardiamo al futuro (e già al presente), dobbiamo imparare a cambiare i criteri con cui definiamo noi stessi: un popolo di pizza e spaghetti, sole e mare, arte e cultura che ora deve accettare le contaminazioni di altri spaghetti, di altre pizze e focacce, di commerci con l’Oriente (ricordiamoci la grandezza di Marco Polo) e di tecnologie importate da altrove.

In fondo il tema dell’acquisizione della cittadinanza italiana al momento della nascita o al compimento dei 18 anni, è relativo. Prima della maggiore età nessun diritto viene negato a nessun bambino/ragazzo; e dopo i 18 anni, un ragazzo nato in Italia da genitori non italiani potrà comunque chiedere di essere cittadino italiano. Il fulcro del dibattito quindi non sono loro, siamo noi. Perché temiamo che gli spaghetti “contaminati” saranno meno buoni e che ciò che ci caratterizza come popolo dinanzi al mondo sarebbe inesorabilmente trasformato. Questo da una parte significa che non vediamo quanto già l’Italia sia cambiata (vogliamo contare i negozi cinesi che caratterizzano interi quartieri? O le pizzerie egiziane?). E significa anche che preferiamo essere dei carbon fossili in un mondo che già è profondamente cambiato.

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