Italiani maccaroni e stranieri “marocchini”?
Elio Di Rupo (nella foto), primo ministro belga che con un difficile esercizio di equilibrismo sta guidando il Paese tra le solite difficoltà tra fiamminghi e valloni, è di origini italiane come il suo nome lascia intuire. La sua storia è significativa. È il figlio più giovane di una famiglia d’immigrati arrivati in Belgio nel primo dopoguerra per lavorare nelle miniere di carbone nella regione di Mons. Quando era ancora bambino, una domenica mattina il papà era uscito in bicicletta per comperare il pane ed è morto in un incidente. La mamma, senza un mestiere, ha tirato su la famiglia con i lavori più umili. Elio Di Rupo ha potuto completare i suoi studi universitari solo grazie all’aiuto economico del cognato belga che aveva sposato la sorella maggiore e che aveva visto in lui un ragazzo promettente. Ora, come detto, ha assunto questo gravoso compito di primo ministro con innegabili doti.
Ecco quindi una storia di un figlio dei nostri immigrati che ha “fatto carriera”, come si dice. Ma ve ne sono altri, sempre qui in Belgio, come Maria Arena, che è stata ministro nel precedente governo e ora è senatrice, oppure Di Antonio, attuale ministro dell’Agricoltura nel governo Vallone. Molti sono dirigenti di primo piano in altri campi, molti ad esempio tra i sindacalisti. Tra i figli di Italiani altri sono diventati famosi tra i cantanti, tra i quali il più conosciuto internazionalmente è Salvatore Adamo, ma ci sono stati anche Claude Barzotti, Sandra Kim, che ha vinto l’Eurofestival della canzone per il Belgio. Un altro grande artista nel mondo dello spettacolo è Franco Dragone, anche lui figlio di immigrati, che è stato direttore per tanti anni del “Cirque du Soleil”, creatore di un grande spettacolo di Cèline Dion di enorme successo, ecc.
Nel calcio c’è stato Enzo Scifo, che ha giocato anche nell’Inter, ma anche Dante Brogno e suo fratello, e poi Baseggio, Pieroni e tanti altri e in tante altre discipline. Figli d’immigrati, hanno aperto pizzerie, ristoranti e gelaterie un po’ ovunque in Belgio. Atri hanno lavorato come muratori e sono ora impresari edili, altri hanno potuto studiare e sono ora intraprendenti ingegneri e dirigenti d’imprese dimostrandosi capaci, geniali e creativi.
Gli italiani in Belgio si sono ben integrati nelle varie realtà, conservando comunque in fondo al cuore il grande amore per il loro Paese di origine o quello dei loro padri. Segni evidenti che vengono in evidenza in certe occasioni, come nell’ultimo campionato europeo di calcio, subito dopo la vittoria dell’Italia sulla Germania, quando per le strade di Charleroi e Liegi giravano centinaia di macchine con bandiere tricolori al vento e clacson a tutto spiano come si fosse in Italia. I nostri connazionali in Belgio sono ora 350 mila, cifra che comprende anche le nuove generazioni arrivate per lavorare alla Comunità europea o in seno a varie organizzazioni o ad aziende multinazionali.
Ma i primi italiani ad arrivare in Belgio, inizialmente tra le due guerre ma soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, per lavorare nelle miniere di carbone a Mons e Charleroi in Vallonia e a Genk nelle Fiandre non erano proprio dei colletti bianchi. Erano persone povere, senza lavoro né istruzione, che rispondevano all’appello del governo italiano che aveva fatto un accordo con quello belga: mano d’opera in cambio di carbone. All’inizio erano partiti solo gli uomini, che vivevano ammassati in baracche in condizioni indecenti, (solo più tardi si seppe che provenivano da vecchi campi di concentramento). Scendevano di primo mattino nelle miniere che era ancora buio, a “grattare” carbone per dieci o più ore, con un caldo insopportabile, in bassi cunicoli con tanta polvere (che poi si sarebbe rivelata pure letale), con il timore di continui crolli, e risalivano alla sera che era già buio. Il sabato sera, stravolti da quella vita, magari bevevano un bicchiere di troppo e a volte sorgevano liti e piccoli disordini. Erano per lo più casi isolati, per la maggior parte erano brave persone.
Più tardi arrivarono le mogli e i figli e la vita diventò per loro più vivibile. L’immigrazione italiana è terminata dopo la disgrazia avvenuta l’8 agosto 1956 a Marcinelle, dove in miniera persero la vita ben 262 persone: il maggior tributo lo pagarono gli italiani con 136 minatori. Ma l’immagine creata da quei primi poveri lavoratori non era stata la più brillante. Gli italiani erano chiamati “maccaroni” in senso dispregiativo. Umberto, un mio amico venuto dall’Italia nei primi anni ’60, pur lavorando a Bruxelles come banchiere nella banca Monte dei Paschi di Siena, mi raccontava le sue non poche difficoltà ad essere accettato come italiano, aveva sentito un certo malessere tra la gente intorno a lui. Io invece sono arrivato a Bruxelles alla fine degli anni ’70 e il mio impatto è stato ben diverso. Erano già passati parecchi anni e lavorando come grafico e in un ambiente dove la cultura, la Ferrari, il design italiano, la moda, ecc. avevano portato un’altra immagine del nostro Paese, non ho avuto particolari difficoltà. Ora evidentemente non ci sono differenze e tutti invece, parlando dell’Italia, ci invidiano il sole e le enormi bellezze naturali e artistiche, quelle culinarie, il calore nei rapporti tra le persone, ecc.
Pensando a quei migranti italiani, a questo punto mi viene un pensierino vedendo i tanti lavoratori stranieri che vengono in Italia, genericamente chiamati “marocchini” anche qui in senso dispregiativo. Arrivano per lavorare come badanti, infermieri, operai nei cantieri edili, nelle campagne, ecc.: lavoratori di cui tra l’altro abbiamo molto bisogno. In mezzo a loro ci sarà anche qualche ladruncolo, diciamo anche qualche violento, qualche bandito, ma per la stragrande maggioranza sono brava gente. Sono lavoratori che hanno dovuto lasciare il loro Paese, le loro famiglie, che hanno altri costumi e tradizioni, magari altre religioni, ma anche i nostri italiani degli anni ’50 sono arrivati qui con i loro usi e costumi, senza parlare la lingua, ecc. e non erano tutti ubriaconi e attacca brighe. Vi erano anche grandi lavoratori, tante brave persone, generose, coscienti di essere in un altro Paese, grati e riconoscenti, verso la Nazione che li ospitava, di poter lavorare e guadagnare il pane per le loro famiglie; ed erano la stragrande maggioranza.