Italia: politica in movimento

Le elezioni del parlamento europeo, condotte col metodo proporzionale, sono state vissute prevalentemente come un test elettorale interno ai vari paesi europei. Un modo certamente non corretto, dal punto di vista del bene dell’Unione europea; ma che ha messo in evidenza alcuni fenomeni interessanti nella politica italiana. In Italia, il voto per le europee era affiancato da una ampia consultazione riguardante i governi locali della Sardegna, di 63 province e di oltre 4 mila 500 comuni. La consultazione amministrativa ha visto una netta affermazione del centro-sinistra, dimostrando che, se le forze che lo compongono si presentano unite, sono in grado di vincere. D’altra parte, il voto proporzionale per il parlamento europeo distribuisce i consensi in maniera sostanzialmente paritaria fra centro-destra e centro-sinistra, attestati, ciascuno, intorno al 46 per cento. Nell’insieme, queste indicazioni mostrano un paese diviso a metà, nel quale le forze delle due parti hanno uguali possibilità di prevalere nelle future elezioni politiche, purché diano vita a due coalizioni molto ampie. Tali coalizioni potrebbero anche limitarsi a mere alleanze elettorali; ma darebbero vita, successivamente, a governi litigiosi e a opposizioni frantumate. Il buon funzionamento del sistema democratico avrebbe bisogno, invece, di un numero ridotto di soggetti, espressivi delle più importanti culture politiche esistenti nel paese, organizzati in coalizioni stabili. Le recenti elezioni e le successive forti difficoltà della coalizione di governo, che hanno portato alle dimissioni del ministro Tremonti, pongono decisamente proprio questo problema che, certamente, ha anche aspetti di ordine tecnico e di ingegneria politica (è stata risollevata, ad esempio, la questione del sistema elettorale), ma, nel suo fondo, è di ordine ideale e culturale. Cominciamo dal centro-destra. Qui il fatto rilevante è la ridistribuzione dei voti: Forza Italia ha perso consensi, mentre la Lega, Alleanza nazionale e l’Udc li hanno mantenuti o sensibilmente accresciuti. Indipendentemente dalle opzioni partitiche, dal punto di vista democratico è un fatto positivo per l’insieme del sistema, in quanto la coalizione risulta meno condizionata dalla figura del leader del partito più forte, meno personalizzata e, dunque, più capace (almeno potenzialmente) di assumere linee di condotta più politiche meno vincolate a prospettive personalistiche. Dovrebbe acquistare maggior peso, in tal modo, il dibattito fra le diverse culture politiche presenti all’interno della coalizione, che sono almeno tre. La prima è quella di impostazione democristiana, caratteristica dell’Udc e di una gran parte del personale politico di Forza Italia; in quest’ultimo partito, però, non riesce ad esprimersi in misura proporzionata, perché sostanzialmente dominata – nella gestione del partito – dall’altra cultura presente nella coalizione, quella individuale- liberista. Il conflitto politico che ha spesso opposto, nell’attuale legislatura, le forze della Casa delle libertà, non è solo una questione di poltrone, ma è un conflitto culturale, sul senso e sui modi del fare politica, conflitto implicito anche all’interno del partito maggiore, dove, prima o poi, dovrà scoppiare. La terza cultura è quella nazionale e sociale di Alleanza nazionale: sottoposta a molte spinte e controspinte dal congresso di Fiuggi in poi, ha visto l’inserimento, nei documenti programmatici del partito, tanto di elementi liberali, quanto di interi pezzi di dottrina sociale cristiana; che tutto questo abbia raggiunto una sintesi convincente, credo che nessuno lo possa sostenere: i lavori sono tuttora in corso. Una riflessione a parte meriterebbe la Lega, all’interno della quale, culturalmente, c’è di tutto: un tutto tenuto insieme dagli obiettivi prioritari che Bossi ha assegnato alla sua formazione: federalismo – come la Lega lo intende -, liberazione del Nord, sono i punti forti di una ideologia leghista che, come ogni ideologia, tiene insieme un soggetto politico coprendo le differenze culturali reali. Se passiamo al centro-sinistra la questione si arroventa ulteriormente. Mentre nel centro-destra i piccoli partiti (Rauti, Mussolini) conservano una forza simbolica, da questa parte i partiti minori (o ex tali) raggiungono un 13 per cento dei consensi, indispensabili per una eventuale vittoria elettorale dell’area di centro-sinistra; e, pur nelle diversità fra di loro, hanno dimostrato di sapersi muovere congiuntamente su alcuni obiettivi qualificanti, come è stata l’opposizione alla guerra in Iraq. La cultura dominante, in questo settore che accomuna Bertinotti, Cossutta, i Verdi, è del tipo che tecnicamente, si definisce antisistema: di matrice marxista, o ecologista (o una sintesi di entrambe), può intercettare i movimenti e le istanze sociali che contestano in maniera più radicale il sistema capitalistico; partecipano alla logica delle istituzioni democratiche, ma non possono condividere fino in fondo le motivazioni degli altri partiti, di natura riformista, con i quali potrebbero allearsi. Queste forze hanno grande importanza, anche perché la loro impostazione culturale è condivisa da una buona parte della sinistra interna ai Ds; in sintesi, la cultura anti-sistema di sinistra raccoglie circa un quinto dell’intero elettorato. L’altro fatto rilevante delle ultime elezioni è la presentazione del cosiddetto Triciclo – con il simbolo dell’Ulivo – comprendente i Democratici di sinistra, la Margherita, lo Sdi di Boselli. La novità consiste nella sottolineatura che non si tratta di una alleanza elettorale, ma vorrebbe essere un nuovo soggetto politico, la componente riformista della futura coalizione di centro-sinistra. E anche qui si apre un ventaglio variopinto di culture politiche, che comprende il cattolicesimo democratico di origine democristiana dei popolari, la tradizione socialista, una componente liberal-democratica, una popolare-legalitaria erede di Mani pulite, le diverse sfumature della particolare cultura comunista italiana proveniente dal Pci. Al quadro generale è da aggiungere, oltre all’Udeur di Mastella, che ricade culturalmente nell’ambito degli eredi della Dc, anche la cultura radicale, che non è raccolta soltanto all’interno dell’omonimo partito, ma è diffusa in maniera trasversale a tutti gli schieramenti. Non spetta a noi dire che cosa debbano fare i partiti politici. Ma forse si può avanzare qualche idea sul come: cioè sul modo con il quale le culture politiche chiedono di essere affrontate. L’esistenza di tante diverse culture politiche, io credo, è una ricchezza: guai a lamentarsene! Pensiamo che il lamento si trasformerebbe in orrore se, al contrario, esistesse una cultura sola. Queste culture politiche, inoltre, corrispondono a culture realmente presenti nel paese. Il buon funzionamento del sistema democratico non richiede affatto che la loro rappresentanza politica si riduca al minimo; non è necessario, cioè, che tali culture si comprimano all’interno di due soli partiti in competizione. Le coalizioni, infatti, servono proprio per far coesistere diversi soggetti politici (per garantire l’esigenza di una variegata rappresentanza culturale e di interessi), con la necessità di una competizione chiara fra due avversari principali (per garantire l’esigenza di avere funzioni di governo e di opposizione unitarie). Siamo convinti che i partiti – non quelli improvvisati e di durata stagionale, ma quelli che hanno una storia e una cultura radicata -, non nascano per caso, ma che rispondano a delle esigenze storiche, a dei bisogni reali; o anche a dei sogni e a delle utopie ugualmente necessari. Se le cose stanno così, se ciascuno, di conseguenza, è portatore di una parte di verità, allora non è impossibile trovare la maniera di far convivere, all’interno di una coalizione, esigenze vere; non è impossibile alternarsi al governo con un’altra coalizione, unita in modo analogo, senza che l’una distrugga ciò che, precedentemente, ha fatto l’altra, ma in modo che l’alternarsi al governo dia luogo ad un processo che, nonostante le discontinuità naturali, sia, nell’insieme, un processo costruttivo per il paese. È chiaro che, per raggiungere tale obiettivo, abbiamo bisogno di partiti nei quali l’identità ideale riesca a liberarsi dai molti condizionamenti che la mettono in ombra; e abbiamo bisogno di una capacità di dialogo che può venire solo da una purezza nel fare politica. I cittadini possono fare molto per contribuire a questo rinnovamento, come sottolineava Lucia Fronza Crepaz nell’intervento che precedette le elezioni (1). Anzitutto, possono cercare di investire di più nella politica, che oggi richiede una migliore conoscenza dei programmi e delle persone. Ancora, possono identificare i politici con i quali si può stabilire un patto di lavoro comune: politici di questo genere – potremmo chiamarli politici con l’anima – ne esistono molti, ma solo se il rapporto con la cittadinanza attiva diviene uno stile di lavoro per la maggior parte, si riuscirà a dare un’anima anche ai partiti. Infine, una cittadinanza attiva e organizzata può concorrere a stabilire, in misura significativa, le priorità della politica, facendo sì che le maggiori risorse di tempo e di attenzione vengano rivolte ai problemi reali e più urgenti. Alle elezioni politiche mancano ancora due anni: è il momento giusto per mettere mano a questo tipo di impegno. Un’ultima annotazione: le culture politiche tradizionali sono state messe in crisi, non solo dalla caduta del muro di Berlino, ma anche dal cambiamento sociale e culturale intervenuto negli ultimi decenni, dalle nuove culture e dai nuovi fenomeni in crescita nelle società avanzate, e con i quali le culture tradizionali devono ancora fare i conti fino in fondo. Ma di questo parleremo una prossima volta.

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