Istruzioni per l’aldilà

Vibo Valentia è la città custode della famosa “lamina orfica”: testimonianza commovente del bisogno di immortalità in seno al paganesimo
Castello di Vibo Valentia, all'interno del quale si trova il Museo archeologico statale di Vibo Valentia, in Calabria. Foto: Wikimedia commons/Manuel zinnà2 https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Castello_di_Vibo.JPG

Primo e (al momento) unico visitatore del Museo archeologico statale di Vibo Valentia – la Veipone pre-ellenica, la greca Hipponion, la romana Valentia, la medievale Monteleone –, vado ammirando in tutta tranquillità le collezioni esposte nell’ala nord-ovest del castello che forma l’orgoglio di questa città calabra affacciata sulla Costa degli Dei. L’imponente costruzione, eretta sul sito dell’antica acropoli, è stata più volte ampliata e rimaneggiata lungo i secoli, susseguendosi normanni, svevi, angioini, aragonesi e infine i Borbone. E ogni volta cambiando funzione: da fortezza militare a residenza nobiliare, da carcere a caserma. Rovinato dal terremoto del 1783, il maniero fu sottratto all’abbandono solo a partire dagli anni Settanta del secolo scorso con un restauro esemplare. Oggi ospita gli uffici della Soprintendenza per i beni culturali della Calabria e questo museo il cui allestimento moderno esalta l’importanza e la bellezza dei reperti archeologici relativi a Hipponion e al territorio circostante.

Il nucleo più notevole dei materiali esposti è certamente rappresentato dagli ex voto provenienti dalle aree sacre di Scrimbia e di Còfino: pìnakes (quadretti) e figurine di offerenti in terracotta testimonianti il culto di Kore/Persefone mutuato da Locri Epizefiri, di cui Hipponion era sub-colonia, e bellissime armi bronzee quali probabile omaggio ad una sconosciuta divinità maschile.

Un reperto però varrebbe da solo la visita al Museo, il più famoso e affascinante anche perché misterioso: la sottile lamina d’oro rinvenuta piegata in quattro, nel 1969, in una tomba femminile. Di appena 59 millimetri di larghezza nella parte superiore e 32 di altezza, rifulge in una vetrina al pianterreno di una delle torri, simile ad un prezioso ornamento. Senonché il testo in lingua greca che vi è inscritto in sedici righe lo dichiara il più antico documento rinvenuto in Calabria relativo ai misteri orfici (fine V secolo a.C.).

Lo si può tradurre così: «A Mnemosine è sacro questo. Quando ti toccherà di morire, andrai alle case ben costruite di Ade: c’è alla destra una fonte, e accanto ad essa si erge un bianco cipresso; là discendono per avere refrigerio le anime dei morti. A questa fonte non andare neppure troppo vicino; ma più avanti troverai la fredda acqua che scorre dal lago di Mnemosine; vi stanno innanzi custodi ed essi ti chiederanno con il loro spirito severo cosa vai cercando attraverso le tenebre dell’Ade caliginoso. Di’ loro: sono figlio della Terra e del Cielo stellato, di sete son arso e vengo meno; ma datemi presto da bere l’acqua del lago di Mnemosine. E si prenderanno pena di te per volere dei giudici degli Inferi; e sicuramente ti lasceranno bere le acque di Mnemosine; e tu quando avrai bevuto percorrerai una lunga strada, quella stessa sacra su cui procedono gloriosi anche gli altri iniziati e posseduti da Dioniso».

Nell’intero bacino mediterraneo testi paragonabili a questo si ritrovano solo nei “Libri dei morti” dell’antico Egitto. Si tratta evidentemente delle istruzioni che un iniziato ai misteri orfici deve osservare per intraprendere il suo viaggio nell’aldilà. Ma per chi è poco informato al riguardo occorre qualche spiegazione, semplificando al massimo.

La dottrina orfica, dottrina certo d’élite, ha origini, come indica il nome stesso, nel mito di Orfeo, il cantore trace che, unico tra i mortali, osò penetrare nell’Oltretomba (l’Ade) per strappare alla morte l’amata Euridice, avvalendosi del suo canto ammaliante per ottenere il consenso dei sovrani degli Inferi. Purtroppo l’impresa non riuscì e Orfeo concluse la sua esistenza infelice in modo violento, dilaniato dalle invasate seguaci di Dioniso. A lui si fa risalire la dottrina che insegna il modo per raggiungere l’immortalità. Nell’uomo, secondo essa, c’è una scintilla divina: l’anima immortale (l’elemento dionisiaco) che lo spinge a identificarsi con la divinità, purché egli combatta le tendenze negative della sua parte corporea e mortale (l’elemento titanico). Di qui la necessità, per gli iniziati, di condurre una vita morale purificando l’anima attraverso prove e mortificazioni. Tra i precetti dell’orfismo – una delle dottrine più pure sorte in seno al paganesimo – c’è il divieto di uccidere animali per alimentarsi delle loro carni.

Lamine come questa di Hipponion potevano essere indossate arrotolate in un prezioso astuccio appeso al collo con una catenella d’oro (è il caso di un esemplare rinvenuto anch’esso in Calabria, a Petelia, ora conservato presso il British Museum di Londra) o, ripiegate più volte, inserite nella bocca del defunto al momento della sepoltura.

Tornando al testo in esame, l’appello a Mnemosine, la divinità madre delle Muse che presiede alla memoria e alla conoscenza intese come via di liberazione per l’uomo, significava separarsi dagli altri defunti che, abbeverandosi alla fonte dell’oblio, si assoggettavano invece a un destino di sofferenza attraverso più rinascite nel mondo terreno. A differenza di loro, infatti, il seguace dell’orfismo aveva facoltà di intraprendere immediatamente il viaggio verso un’esistenza beata: bastava che facesse valere presso i custodi dell’acqua di Mnemosine la sua condizione privilegiata di iniziato, appellandosi al ricordo delle proprie origini divine, alla sua discendenza da una stirpe celeste.

Al momento attuale ben sette laminette auree sono state ritrovate nella sola Calabria, dove l’orfismo aveva legami con la mistica pitagorica. Altre in Tessaglia e a Creta, in Sicilia e a Roma. Tutte con qualche variante rispetto al testo ipponiate, che rimane il più completo e soprattutto proviene da uno scavo condotto scientificamente: testimonianza commovente della tensione dell’uomo – in questo caso una donna di cui non sappiamo neanche il nome – a trovare un antidoto alla morte per assicurarsi la sopravvivenza ultraterrena.

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