Istantanee di un album
«Dopo un primo mese trascorso a Karachi sono partita per il nord: destinazione Lahore, dove già da qualche tempo c’era un focolare. La casa aveva tantissime porte, una stanza dentro l’altra e tutte collegate, secondo lo stile tipico delle abitazioni locali di un certo livello. C’era persino il telefono: per la prima volta dal mio arrivo in Pakistan ho risentito la voce di mia madre e ho potuto dirle che ero arrivata a destinazione. Avevo un groppo alla gola e i miei tentativi di camuffarlo fallirono inesorabilmente: «Se non sapessi che è impossibile, direi che parli tenendo una prugna in bocca», fu il suo commento. Ci eravamo capite.
Il clima lì era più fresco, si respirava un’altra aria nell’aria. Non saprei come spiegare meglio di così. Ci sono cose che s’imprimono nella memoria e hanno il potere di far rivivere determinate impressioni. Una saponetta, per esempio. Forse perché sconosciuto al mio olfatto, il profumo di quella saponetta è rimasto nei miei ricordi indissolubilmente legato a Lahore. Al mattino, quando il sole scaldava un po’ di più la terra e fuori casa si stava meglio che dentro, sentivo un misto di profumi e sensazioni che, in qualche modo, mi ricordavano la primavera. Un’aria frizzantina ma opaca, un leggero profumo di novità, le forme che si perdono nel cielo di mezzogiorno e cominciano a stagliarsi al tramonto, quando le palme sembrano toccare le stelle creano un’atmosfera particolare. Se mi raccolgo, la trovo ancora dentro me. Ricordo un uomo che passava con il suo carretto vendendo diversi tipi di olio, di cui annunciava i nomi con una cantilena sempre uguale: «olio di soia, olio di palma, olio di girasole, olio di soia, olio…». Anche lui sembrava un tutt’uno con l’atmosfera.
Un giorno, con le focolarine, abbiamo deciso di fare un viaggio a Rawalpindi. Come al solito, partenza all’alba (5.30 del mattino) per sfuggire il caldo. Era inverno e faceva freddo, non capivo quindi il tipo di ragionamento. In effetti, è un tipo di logica difficile da afferrare all’inizio, ma poi ci si abitua: visto che presto sarebbe arrivato il caldo estivo, era bene non perdere l’allenamento, perciò si partiva sempre all’alba, o anche prima, anche in pieno inverno. In quel viaggio di 5-6 ore ho avuto modo di conoscere lo stile di guida locale. Quasi subito ho capito che, a meno di non essere al volante – caso in cui è bene, per ovvie ragioni, non seguire questo consiglio –, in viaggio conviene decisamente tenere gli occhi chiusi e pregare. Inutile descrivere i sorpassi, effettuati preferibilmente in situazioni di poca visibilità, la velocità che aumenta in prossimità di agglomerati urbani, e via di seguito. «Ma – come un giorno mi ha rassicurato un autista, al quale con il mio urdu zoppicante avevo chiesto di rallentare – un giorno o l’altro da questa terra bisogna andarsene. Siamo nelle mani di Dio». Quindi, no problem. Anche a Rawalpindi c’era già un piccolo gruppo di persone da conoscere. Ci ospitavano due stanze fredde e disadorne, una sistemazione arrangiata giusto per avere dove posare il capo. Arrivavano ospiti a tutte le ore, e offrivamo loro il chai (tè bollito insieme a latte e zucchero) con le Marie, economici biscottini simili a gallette. Si scambiavano poche parole, nella stessa atmosfera che avevo già notato a Karachi. Quando andavano via, la casa era più casa, resa tale dalla loro presenza semplice e spontanea.
E da Rawalpindi è iniziato un viaggio “da mille e una notte”: Rawalpindi-Karachi by road, 1.800 chilometri senza autostrade. Insieme all’autista e ai due passeggeri (noi tre focolarine), si spostava praticamente un emporio. Non c’era più un angolo libero nell’abitacolo e io, che ero seduta dietro, non potevo permettermi nessun movimento che non fosse più che necessario, come per esempio respirare. Era ormai notte, e sulle strade pakistane, soprattutto quelle di campagna, se non c’è la luna, la notte è proprio nera. La luna non c’era. Stavamo per arrivare a Multan, dopo una giornata di viaggio (con varie soste per visitare persone che conoscevamo a Lahore e a Okara). Il carretto, tirato da un bufalo, lo abbiamo scorto all’ultimo momento. Non abbiamo invece visto – però ne abbiamo sentito l’impatto – la spranga di ferro che sporgeva per circa due metri dal retro del carretto e che si è conficcata nel radiatore della nostra Toyota Starlet. Spinto dal forte urto posteriore, il bufalo ha saltellato un bel po’. Il contadino che conduceva il carretto si è spaventato, ma niente di più. La nostra automobile, invece, si è fermata inesorabilmente, e noi con lei. Era notte ed eravamo in aperta campagna. Ci siamo divise in due gruppi: una di noi, chiusa nell’automobile, avrebbe atteso, custodendo il bagaglio che portavamo verso sud, mentre le altre due avrebbero cercato di raggiungere la città. Arrivate dopo varie peripezie a Multan, abbiamo trovato aiuto e siamo tornate a recuperare compagnia e mercanzia. In attesa che riparassero la nostra automobile, e dopo le solite poche ore di sonno, abbiamo trascorso una bellissima giornata in compagnia di persone del luogo.
Poco meno di un mese dopo, in occasione di un’altra visita a Lahore, una seconda esperienza, molto più cruda della prima. La figlia unica dell’allora ambasciatore d’Italia in Pakistan ci aveva invitato a una cerimonia nel villaggio di Khushpur, ritenuto il cuore del Pakistan cattolico. Da Lahore era un viaggio di un paio d’ore: stesse strade, stessa dinamica. Erano tempi insicuri e la polizia allestiva rudimentali posti di blocco: una sbarra di legno che il poliziotto decideva di far calare sulla strada a sua discrezione. Eravamo ormai vicini a Faisalabad quando su un rettilineo un poliziotto cercò di fermare un pulmino che viaggiava in direzione opposta alla nostra, calando, per errore, la sbarra di colpo. L’autista, spaventato, per evitarla sterzò bruscamente a destra (la guida è a sinistra), ma la velocità era tale che ce lo trovammo davanti: frontale inevitabile. La macchina distrutta, tanti bernoccoli (ma per fortuna solo quelli) e il sentore che per i passeggeri dell’altro veicolo la situazione fosse molto più grave. Non ci diedero modo di verificare. Essendo donne, la polizia ci prese immediatamente sotto la sua protezione. Passammo la giornata alla stazione di polizia, una stanzetta vuota con una vecchia scrivania e tante scartoffie ammucchiate qua e là per terra. Conoscemmo l’officer del posto, un signore dall’aspetto comune ma che lasciava trapelare l’altezza del rango. Era, infatti, un medico psichiatra specializzato in criminologia, destinato a una brillante carriera. Ci ha studiato con una sola occhiata e, a distanza di anni, ricordava particolari, atteggiamenti, reazioni incontrollate di cui neppure noi eravamo state coscienti. Ci lega ancora una sincera amicizia. Quella volta e in molte altre occasioni negli anni successivi lo abbiamo considerato come un nostro angelo custode.
Abbiamo trascorso la seconda notte di viaggio a Rehimyar Khan, una cittadina a circa 700 chilometri da Karachi. Eravamo ospiti delle suore, ma la cena si svolgeva per consuetudine in parrocchia. Su un unico compound (cortile) si affacciavano chiesa, casa parrocchiale, convento delle suore, scuola e dispensario. Era stata una bella serata, anche se non avevo afferrato il tema della conversazione: il mio timido inglese non aveva retto l’impatto con l’accento marcatamente irlandese del parroco, ritirandosi in un angolino remoto del mio cervello. La stanza da letto che ci ospitava nella foresteria era vuota, nel senso che c’erano solo alcune brandine in fila indiana. Il bagno era all’aperto, sotto le stelle. La notte fredda volò via: anche in quell’occasione la partenza era fissata per le 4 del mattino.
Era tutto così nuovo, per me, che quei primi mesi sono vivi nei miei occhi come istantanee in un album, dai colori non sbiaditi dal tempo. Avevo spesso l’impressione di trovarmi davanti a qualcosa di decisamente più grande di me. E non è retorica: era una questione seria, di quelle che vogliono dirti qualcosa e intuisci potrebbero segnare una svolta importante nella vita. Forse non riuscivo ad afferrarne il nocciolo, ma sapevo che tutto quello che vedevo intorno a me faceva da cornice a un’esperienza vitale.
Siamo arrivate a Karachi a mezza mattina, in pieno traffico, in mezzo a una polvere che rendeva il quadro visivo opaco, spento; i finestrini – chiusi per ripararci dalla polvere – ci impedivano di sentire i rumori. Sembrava di assistere a un film muto, in bianco e nero: davanti a noi ingorghi incredibili si sbrogliavano miracolosamente in pochi minuti, carretti coraggiosi sfioravano auto in velocità, camion dalle grosse dimensioni si ostinavano a passare in spazi studiati al millimetro. Un giudizio sicuramente avventato avrebbe scommesso che fosse sufficiente che una delle auto delle vicinanze si spostasse di poco, giusto un metro in avanti o indietro, e il bestione della strada sarebbe passato. Invece no: gli autisti scendevano dalle automobili per dirigere da terra i movimenti del testardo conducente impegnato nell’impresa; gesticolavano, battevano sulla carrozzeria, incoraggiavano, finché non ci riusciva! Era forse una questione di principio? Intanto la vita intorno continuava indisturbata al ritmo della musica che usciva dai taxi e dai Suzuki, con la folla che animava la stasi del traffico al semaforo e frotte di bambini nelle divise scolastiche che guadagnavano la strada verso casa. Era qui, in questa città, che si apriva la mia sfida, o meglio una sorta di “love story”.
Daniela Bignone, Oltre il velo, nel cuore del Pakistan (Città Nuova, 2013), € 9,00; pp. 120.
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