Istanbul non ha paura

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Istanbul, inizio dicembre. La storia sembra passare di nuovo per questo impareggiabile crocevia di dinastie ed imperi, scismi e rinascite. La capacità della metropoli (13 milioni circa di abitanti) di assorbire gli choc è indubbia, proporzionalmente alla densità del suo passato. I luoghi degli attentati sono presidiati dalla polizia, che non lascia passare nessuno. Il governo sceglie l’occultamento. Forse non ha tutti i torti. Dopo le bombe Ma non si può occultare la generosità che ha seguito le esplosioni. Matilde e Henry, rispettivamente 85 e 90 anni, cristiani, ancora autosufficienti, la mattina del 15 novembre si trovavano a casa loro, a Sisli, quartiere popolare di Istanbul, con una cospicua presenza ebraica. Henry aveva l’abitudine di uscire presto per le commissioni, ma quel giorno aveva deciso di prendere le cose con calma, e alle nove e mezzo indugiava in cucina, all’interno dell’appartamento. Matilde, invece, era seduta vicino alla finestra dalla quale si vedeva la sinagoga. In quel momento è esplosa l’autobomba. Matilde si è liberata dai calcinacci che le erano caduti addosso ferendola e, aiutata dal marito, illeso, è scesa in strada. Una ambulanza li ha portati all’ospedale. “È assurdo – mi spiegano oggi – ma ci siamo salvati per un dono di Dio. Quanta gente ci ha telefonato per avere notizie, per assicurarci delle loro preghiere, per fornirci del necessario: i danni, purtroppo, sono molto seri. La generosità della gente è stata straordinaria”. Una giovane insegnante turca, Nelgun, invece, mi racconta: “Il primo giorno lavorativo dopo l’esplosione delle bombe nelle sinagoghe, appena arrivati a scuola, ci siamo riuniti nel cortile della scuola, come facciamo ogni lunedì, per cantare l’inno nazionale e per osservare un minuto di silenzio in memoria delle vittime della strage. In classe abbiamo cominciato a parlare: per tutti lo choc era forte. Ma si avvertiva pure il desiderio di fare anche noi qualcosa. Ho chiesto perciò all’unica ebrea della classe (gli altri sono musulmani) se conosceva qualcuno della sinagoga. Era morto un suo amico, una guardia. Erano in due quel mattino: si erano messi d’accordo sui posti da occupare. Anzi, il secondo aveva suggerito al primo di appostarsi proprio nel posto dove più tardi la bomba sarebbe scoppiata. Dopo la morte del collega, è caduto in una forte depressione. Si sentiva colpevole della sua fine, e voleva morire. “Lì per lì – continua Nelgun -, gli allievi hanno deciso di scrivergli delle lettere. Abbiamo raccolto tutto in una teca, che la ragazza ebrea ha fatto giungere al giovane uomo”. Una delle lettere diceva: “Quanti martiri ci sono nel mondo! Quanto sangue versato ogni giorno! Finché non ci sarà giustizia non si fermerà questo massacro. Ma se noi indirizziamo il nostro cuore verso il bene e l’equità, forse potremo cambiare un giorno il mondo. Come, mi chiederai? Cominciando da noi stessi e con quelli che ci sono più vicini. Ti prego non perdere la fede, la speranza e l’amore”. Islam tollerante In posizione baricentrica rispetto ai luoghi dei recenti attentati, visito la moderna sede della Gazeteciler ve Yazarlar Vakfi, “Fondazione dei giornalisti e degli scrittori”, che si ispira ad un leader dell’Islam moderato, Fetullah Gülen, che vive negli Usa e che scrive messaggi di questo tono: “In questo mondo inquinato c’è una sola cosa che rimane senza macchia: l’amore. Il suo vessillo può abbattere anche i muri della cittadella più inespugnabile, senza tuttavia spargere una sola goccia di sangue”. Cemal Us¸s¸ak è vicepresidente della fondazione. Cosa succederà dopo i kamikaze? “È assolutamente chiaro che tutte le attività terroristiche hanno come scopo di distruggere la pace, la democrazia, l’umanità. Ma anche i valori religiosi. Il mondo deve credere che l’Islam, quello vero, non approverà mai il terrorismo. Nessun terrorista può essere musulmano, e nessun vero musulmano può essere terrorista. Se una nave sta trasportando nove criminali e una persona innocente, l’Islam non permette che la nave venga affondata”. C’è ancora spazio per un dialogo tra paesi di cultura cristiana e musulmana? “Senza dubbio – continua -. Oggi il mondo si scontra con problemi gravi quali terrorismo, violazioni dei diritti umani, fame, prostituzione” Il dialogo tra fedi diverse è necessario per combatterli. Anzi, non basta il dialogo, serve cooperazione, per ricostruire l’armonia tra i popoli”. Durante un ricevimento, faccio poi conoscenza con Niyazi Öktem, professore di storia all’Università di Galata: è affabile, generoso e disponibile. “Prima delle ultime guerre e dei recenti attentati – mi spiega -, i musulmani che si rendevano conto della necessità del dialogo con le altre religioni erano pochi. Oggi, invece, sono molti di più. Naturalmente gli intellettuali sono in prima linea, anche se in Turchia per decenni sono stati proprio loro a considerare la religione come un elemento secondario della vita. Purtroppo alcuni imam turchi non possiedono una grande cultura, e quindi non sanno leggere adeguatamente il Corano e il suo messaggio di pace. Ma sono fiducioso, perché le attuali difficoltà spingono la popolazione al dialogo. E lo Spirito è attivo un po’ ovunque: i valori positivi trionferanno. Camminiamo verso un Dio di bontà, pace, fraternità”. Cristiani a Istanbul Scendendo dalla collina di Beyog ? lu, il panorama della città si mostra in tutta la sua maestosità. Mi reco al Fanar, cioè al centro vitale dei greco-ortodossi, ridotto ai minimi termini nella costa settentrionale del Corno d’oro, il braccio di Bosforo che penetra nella terra ferma europea. Da decenni il governo laico instaurato da Atatürk non concede grandi spazi al patriarcato. Oggi si celebra la grande festa di sant’Andrea, ma la gente non viene. L’unico assembramento è quello dei fotografi a caccia di ministri e ambasciatori, metropoliti e patriarchi. Il tempo nella liturgia ortodossa è dilatato non per trattenere più a lungo il popolo al cospetto di Dio, ma per ricordare come non vi sia tempo per il cristiano che nell’atemporalità. Così le bombe di Istanbul paiono essere esplose in un altro tempo. Le guerre sono relegate nel mondo degli uomini, la cattiveria non abita questo cenacolo. Dice il patriarca Bartolomeo I: “Il nostro no al terrorismo passa per il dialogo con chiunque. E per la ricerca della giustizia”. I cristiani in terra turca sono un’esigua minoranza, per giunta divisi in una infinità di chiese e parrocchie diverse. Un occhio solamente statistico direbbe che stanno estinguendosi, o quasi. Io stesso ne ho la dolorosa prova diretta, allorché vengo a sapere della scomparsa di commerciante di antichità, il signor Chalabi, incontrato la vigilia nella sua piccola ma preziosa bottega del Gran Bazar. Parlava l’italiano perfettamente, una vecchia passione che lo aveva portato alla presidenza del “Club degli italiani”. I cristiani perdono così un altro fedele. Ma, per fortuna, la cristianità non è soggetta solo alle leggi della statistica. E la sua presenza è lievito e sale, importante e rispettata dalla popolazione. Tra Europa e Medio Oriente A Istanbul tutti parlano di bombe, a cominciare dai tassisti, precisissimi e onesti come non li trovi nemmeno a Milano, che guidano tante Fiat Regata, uscite dalla catena di montaggio venduta alla Turchia dalla casa torinese. L’atmosfera non si può definire drammatica, anche se gli sguardi dei poliziotti non lasciano dubbi: l’emergenza continua. Osservano ogni auto che passa e non permettono a nessuno di rallentare e fermarsi nei punti delicati. Come sempre, in questo paese che conta il più grande esercito Nato dopo quello degli Stati Uniti (450 mila uomini), e un corpo di polizia oltremodo efficiente, oltre a ben tre servizi segreti – che dicono secondi solo alla Cia e al Mossad -, nei momenti difficili la calma torna sotto l’egida degli uomini in divisa. La gente si chiede a chi torni conto seminare terrore. Il governo, moderatamente islamico, nel frattempo sta cercando di armonizzare la laicità dello stato, solida come solo in Francia c’è l’eguale (non a caso i foulard islamici qui sono vietati nei luoghi pubblici), con le esigenze dei musulmani ferventi. Ora, purtroppo, il flusso degli stranieri è quasi annullato, per via della paura: ciò è grave per l’economia, perché il turismo è senza dubbio la maggiore entrata della città, un enorme centro commerciale. Nel pomeriggio mi avventuro alla ricerca di uno spettacolo di pura tradizione, musica e danze sufi dei dervisci con le loro gonnone bianche. Per arrivare al teatrino, percorro Istiklâl Caddesi, via pedonale percorsa in tutta la sua lunghezza da un vecchio tram che scivola lento, stracarico di passeggeri. Qui incontro la Istanbul d’occidente, europeissima, con le stesse musiche, gli stessi jeans, gli stessi profumi e gli stessi film che vediamo in Italia o in Francia. Sconcertante. I giovani sembrano fare il verso alle mode e ai vezzi dei loro coetanei milanesi o newyorkesi, con solo qualche abitudine alimentare differente. La globalizzazione è arrivata anche qui. E non posso allora non chiedermi chi vincerà la guerra tra modernità e fondamentalismo islamico. È più che evidente che solo un Islam moderato, ma non asservito all’occidente, riuscirà a evitare che la guerra scoppi. Un futuro di pace? La Turchia è indiscutibilmente un paese di paradossi: ha uno stato laico, ma con più del 99 per cento della popolazione musulmana e al 70 per cento di credenti; memore della politica di Atatürk, vuole l’integrazione nell’Unione europea, ma nel contempo vuol mantenere gli antichi legami con l’Asia musulmana; aspira alla democrazia parlamentare, ma nei comportamenti pare ancora tribale o oligarchica; desidera creare un’economia di mercato efficiente, ma conserva il fascino del commercio tradizionale, con mafie e corruzioni varie annesse” Ma, soprattutto, la Turchia – e Istanbul in particolare – ha un’innata vocazione a fungere da ponte, da transizione, da trait d’union. Non a caso proprio a Istanbul è conservata nel Museo dell’antico oriente una tavoletta di terracotta che riporta il primo trattato di pace conosciuto al mondo, quello di Qadesh, concluso tra Ramses II e il regno ittita dopo l’omonima battaglia, addirittura nel 1269 prima di Cristo. Se tolleranza, accoglienza, intraprendenza e fierezza sono le qualità del popolo turco, anzi dei popoli che sono in Turchia, questa tavoletta può indicare loro la direzione da prendere.

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