Israele, Neftali Bennett guida il nuovo e fragile governo
Nessuna maggioranza più risicata di quella ottenuta alla Knesset (il parlamento unicamerale composto da 120 membri) da Naftali Bennett, il nuovo presidente incaricato di formare il governo di Israele: 60 voti a favore, 59 contrari, 1 astenuto. Eppure è la prima volta dopo 12 anni consecutivi (da marzo 2009) che l’incarico non va a Benjamin “Bibi” Netanyahu e ad una maggioranza non più tale costituita da Likud (il partito di Netanyahu) e dall’arcipelago dei partiti della destra religiosa. Per quanto riguarda la coalizione dei partiti che sostengono Bennett si potrebbe dire che una collazione così variegata era difficile anche solo immaginarla. Ci sono dentro 8 partiti (sui 13 ammessi alla Knesset dalla soglia di sbarramento del 3,25%): 2 di sinistra, 2 di centro, 3 di destra e, per la prima volta, 1 arabo.
In particolare, gli 8 partiti sono (tra parentesi il numero di deputati): Meretz (6) e Labour (7) quelli di sinistra; Blu e bianco (8) e Yesh Atid (17) quelli di centro; Yamina (7), New Hope (6) e Yisrael Beitenu (7) quelli di destra; Ra’am (4) il partito arabo-israeliano. La somma darebbe 62 (su 120), ma 1 deputato di Ra’am si è astenuto e 1 deputato di Yamina ha votato contro, quindi 60. Ciò che maggiormente sembra accomunare questi 8 partiti sembra francamente più che altro la volontà di dare al Paese un’alternativa che non si chiami Netanyahu. Questo in un quadro istituzionale che ha certamente bisogno di una revisione, bloccato com’è su schemi che non favoriscono un rinnovamento, che nessuno in queste condizioni è in grado di promuovere.
In ogni caso il nuovo governo, che muove i primi passi in questi giorni, sarà guidato, se ce la farà a reggere, dall’imprenditore Naftali Bennet, leader del piccolo ma decisivo partito Yamina, per i primi due anni (fino al 27 agosto 2023). Poi cederà la presidenza al giornalista Yair Lapid del partito laico centrista Yesh Atid.
Il governo si presenta con un organico di 27 ministri, nove dei quali donne: e questa non è soltanto una novità ma anche un vero record.
Il demografo di origine italiana Sergio Della Pergola, docente all’Università ebraica di Gerusalemme, così leggeva la situazione politica e istituzionale israeliana solo qualche mese fa, all’indomani delle ultime elezioni politiche, le quarte in due anni: «Certamente è una situazione di grande incertezza e crisi», di impasse dovuta «ad un sistema elettorale francamente arcaico». E pronosticava: «Fino a quando si userà lo stesso metodo elettorale con la proporzionale pura, si arriverà allo stesso risultato, il sistema elettorale favorisce la frammentazione dei partiti». «Inoltre – continuava -, in Israele c’è un seggio unico nazionale, non ci sono circoscrizioni, non esiste una rappresentanza diretta degli eletti, si continua ad avere una rappresentanza molto frazionata, molto incentrata sui personaggi guida e non sulle autonomie locali. Il risultato sono governi di coalizione molto frammentati, poco funzionali».
I protagonisti politici della nuova avventura non si fanno troppe illusioni, tutti sanno che è molto improbabile che un governo così fragile e variegato, con programmi diversi e spesso contrapposti, possa affrontare temi duri come il conflitto con i palestinesi, gli insediamenti ebraici in Cisgiordania o le politiche da adottare nei confronti dell’Iran. Bennett ha detto chiaramente che si vuole concentrare soprattutto su temi di politica economica, non ultimo l’approvazione di una legge finanziaria che è bloccata da due anni a causa dell’instabilità politica. Fra i numerosi temi di politica estera, alcuni sono ineludibili e solo rinviati. Non ultimo i rapporti commerciali con la Cina, cresciuti molto negli ultimi anni, e notoriamente sgraditi a Washington, ai tempi di Trump ma anche adesso in quelli di Biden.
Per quanto riguarda l’ex premier Netanyahu, senza più l’immunità legata al compito istituzionale dovrà affrontare i tre processi per presunta corruzione che lo inseguono da tempo.
Intanto la gente manifesta sia pro che contro la nuova realtà: a Tel Aviv qualcuno ha appeso un grande striscione in arabo e in ebraico su un palazzo: “Ebrei ed arabi si rifiutano di essere nemici“. E a Piazza Rabin migliaia di persone hanno festeggiato in un clima da stadio la fine dei 12 anni di Netanyahu. A Gerusalemme Ovest si è svolta invece una manifestazione di sostegno all’ex premier e un folto gruppo di rabbini ultraortodossi si è recato al Muro del pianto per invocare la caduta del nuovo governo.
Mansour Abbas, leader del partito Ra’am, la formazione arabo-israeliana di orientamento conservatore che ha aderito alla coalizione guidata da Bennett-Lapid, ha detto che intende lavorare «per favorire un dialogo che creerà una nuova e migliore relazione fra tutti i cittadini dello Stato, ebrei e arabi».