Israele e mondo arabo: nuovo corso?
Negli ultimi 3 mesi, da quando si è insediato in Israele il nuovo governo guidato da Naftaly Bennet (13 giugno 2021), stiamo assistendo ad una serie di incontri arabo-israeliani ad alto livello ai quali non eravamo più abituati da almeno un decennio. Buon segno? Almeno si parlano, viene da dire.
In sintesi, il 13 settembre, il premier israeliano e il presidente egiziano al-Sisi si sono incontrati a Sharm el-Sheikh, sul Mar Rosso. Di cosa abbiano parlato e come non si sa bene, ma potrebbe essere: la stabilità della regione, l’Iran, il Libano e soprattutto Gaza (con qualche allentamento nella morsa che stringe gli abitanti). E anche su come contrastare gli islamismi o collaborare su gas ed energia. Che al-Sisi cerchi, tramite gli israeliani, una legittimazione statunitense come mediatore accreditato in varie questioni non è troppo difficile da immaginare.
Ma i contatti israeliani nel mondo arabo non riguardano solo il premier: alla fine di agosto il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz aveva incontrato a Ramallah il premier palestinese Mahmud Abbas (l’ultimo incontro a questo livello tra palestinesi e israeliani risale al 2010 e l’ultima telefonata al 2017). E all’inizio di luglio, in segreto ma più tardi confermato, Gantz ha incontrato il re di Giordania, Abdallah II.
E questo senza contare le aperture diplomatiche (reciproche) fra Israele ed altri Paesi arabi come conseguenza degli Accordi di Abramo, che in questi giorni compiono un anno dal loro annuncio: dopo l’esordio con gli Emirati Arabi Uniti, sono seguite le adesioni di Bahrein, Marocco e Sudan.
Il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid è stato a fine giugno in visita ad Abu Dhabi e Dubai, negli Emirati (Eau), dove ha inaugurato rispettivamente la nuova ambasciata e un consolato. E il 12 agosto, sempre Lapid ha posto le basi per l’apertura di una futura ambasciata a Rabat, in Marocco, ed ha anche visitato una sinagoga a Casablanca. L’ufficio di rappresentanza israeliano in Marocco era stato chiuso nel 2000 (all’inizio della seconda Intifada) e l’ultima visita di un ministro degli esteri israeliano in Marocco risaliva al 2003.
Qualcosa sembra muoversi in Medio Oriente tra arabi e israeliani: è solo l’effetto della “caduta” di entrambi i protagonisti della scena precedente, Trump e Netanyahu? In realtà di argomenti da trattare fra arabi e israeliani ce ne sarebbero parecchi, ma finora non si era mai mossa foglia senza l’autorizzazione dei due big boss. E solo su certi temi. Naturalmente con scarsa o nessuna adesione. E adesso?
I due ministri degli Esteri, l’israeliano Lapid e l’emiratino al-Nahyan, hanno scritto insieme un pezzo sul Financial Times, affermando che i loro due Paesi «stanno rapidamente infrangendo barriere motivati da interessi condivisi e valori comuni». Addirittura sostengono che il “nuovo linguaggio di pace” sia quello dell’innovazione, della tecnologia e degli investimenti. Una grande opportunità alla quale invitano ad unirsi gli altri Paesi del Golfo: Bahrein, Kuwait, Iraq, Oman, Qatar, Arabia Saudita. Business is business, detto in parole povere e in soldoni. Giusto per fare un po’ di ironia.
Insomma sembra finito il tempo delle contrapposizioni ideologiche: è forse arrivato il tempo degli affari? Un cambio di rotta che pare riflettere, anche se indirettamente, l’approccio degli Usa di Joe Biden, che prosegue, anche se con una impostazione diversa, la politica estera statunitense del predecessore, Donald Trump: il ritiro dalle guerre senza fine in Medio Oriente per affrontare quella che viene percepita oggi a Washington come la madre di tutte le contese: la competizione con la Cina nel Pacifico.
Una delle conseguenze di questa vision globale che sposta il suo mirino verso l’Asia profonda è la riduzione a problema secondario di uno dei pilastri della contrapposizione mediorientale e mondiale degli ultimi 70 anni: il conflitto arabo-israeliano centrato sulla questione palestinese. Naturalmente non perché sia tutto risolto, tutt’altro. Dopo aver alimentato per decenni il garbuglio mediorientale, che con la complicazione del terrorismo jihadista si è fatto così ingarbugliato che nessuno sa più come uscirne, la nuova ansia da supremazia cinese sembra imporre (e non solo agli Usa) strategie mondiali meno imperialistiche lasciando spazio ai soggetti intermedi nelle questioni declassate a secondarie, per affrontare quella ritenuta più grave. Alta politica o débâcle Usa? E la Nato, esiste ancora? L’Ue si interroga senza per ora trovare una linea condivisa, come sempre. Ma forse un po’ meno di sempre.
Comunque se da un lato i problemi in Medio Oriente non sono certo meno pesanti e le soluzioni non sembrano avvicinarsi neppure di un metro, forse qualcosa si muove ai livelli alti.