Israele e Libano si incontrano per parlare di gas
Dalla base Unifil di Naqoura, in Libano, alla Linea Blu del cessate il fuoco c’è solo una manciata di chilometri, appena oltre ci sono le case di Rosh Ha Nikra, in Israele, protette da una barriera di cemento lunga 11 Km. Nelle belle giornate, da una bassa collina si scorge la costa da Tiro fino ad Haifa. Le batterie di missili e i siti di lancio dei droni non si notano, ma ci sono. Questo non è un confine, è un limite invalicabile. Nessuno ci può passare, mai. Per molti musulmani, non solo libanesi, a sud di quella linea c’è l’occupante, il nemico, l’“entità sionista”. Per molti ebrei israeliani, a nord di quella linea ci sono solo i “terroristi” sciiti di Hezbollah.
In mezzo ci sono le forze di peacekeeping dell’Onu, da più di 40 anni. Il contingente internazionale Unifil, al cui comando c’è dal 2018 il generale dei bersaglieri Stefano Del Col, è attualmente costituito dagli italiani di Italbatt e da militari ghanesi, sudcoreani, irlandesi e polacchi, accanto alla quinta brigata libanese.
Il 14 ottobre, per la prima volta, si sono incontrate nella base 1-32A dell’Unifil, a Naqoura, le delegazioni incaricate di trattare la delimitazione della frontiera marittima tra Libano e Israele. Si è trattato di un primo incontro di due ore dedicato alle presentazioni reciproche e alla spiegazione dell’argomento da trattare: erano presenti la delegazione israeliana e quella libanese, una rappresentanza statunitense, guidata da David Schenker, e una dell’Onu, e il comandante Unifil, il generale Del Col. Per dare un’idea del clima basta dire che alla pausa caffé le due delegazioni, israeliana e libanese, si sono ritrovate in stanze rigorosamente separate. Però non era mai successo, è la prima volta che rappresentanti ufficiali dei due Paesi si incontrano. È poco, se si vuole, ma è anche molto. Intanto ci sarà un prossimo incontro, che è stato fissato al 28 ottobre.
Il leader del partito di destra delle “Forze libanesi”, Samir Geagea, ci ha tenuto a precisare: «Non vogliamo la normalizzazione con Israele perché chiediamo una soluzione alla questione dei palestinesi prima di ogni altra cosa e nessuno può aggirare questo tema». I palestinesi a cui si riferisce Geagea sono beninteso i circa 450 mila rifugiati in Libano, in maggioranza discendenti della diaspora del 1948. Come a dire che l’argomento dei colloqui è uno solo: i confini marittimi, cioè il contenzioso su 860 Kmq di mare che si ritiene possano nascondere giacimenti di gas offshore che nessuno dei due contendenti potrebbe sfruttare senza un accordo, per quanto duro da digerire.
Su quel gas e sull’influenza statunitense negli organismi finanziari internazionali il Libano conta molto, data la situazione economica tragica in cui versa il Paese dei Cedri. Israele e i suoi sponsor statunitensi punterebbero invece di più a cercare con lo Stato libanese un accordo di pace (simile a quelli stabiliti recentemente con Emirati e Bahrein), probabilmente per spuntare clausole che disarmino o almeno riducano l’influenza del Partito di Dio (Hezbollah), e quindi dell’Iran, sul Libano. Mission impossible, dato che il fragilissimo equilibrio, sull’orlo del baratro, che consente di parlare ancora di uno Stato libanese si fonda proprio sulla partecipazione dei partiti sciiti (Hezbollah e Amal) al governo del Paese.
Il fatto, poi, che il gas ci sia davvero è tutto da dimostare. E non mancano a livello internazionale anche le perplessità sulla effettiva possibilità di sfruttamento dei presunti giacimenti, se non altro per il reperimento degli ingenti finanziamenti necessari a trovarli e poi a sfruttarli. Quale compagnia internazionale si potrebbe fidare di un paese come il Libano, con una classe politica disfunzionale e corrotta, una protesta popolare non più disposta a compromessi con il potere e il bilancio dello stato in default?
Senza contare poi l’attuale situazione sanitaria di entrambi i Paesi: in lockdown Israele e in allerta rossa i contagi in Libano. Ma se i colloqui sono un segno minuscolo, almeno c’è. C’è soprattutto per la gente, sia libanesi che israeliani. Che possono almeno sperare.