Israele, la tregua che verrà
Haaretz, il quotidiano israeliano liberale ritenuto di sinistra, riferiva nei giorni scorsi che il ministro della Difesa Yoav Gallant ha presentato un documento che sarebbe stato scritto da Rafa Salama, un comandante di Hamas ucciso dall’esercito israeliano (Idf) il 13 luglio scorso a Khan Yunis. Da chiunque sia stato scritto, il documento afferma che il 70% delle armi di Hamas è stato distrutto (compreso il 95% dei razzi), che il 50% dei miliziani è stato ucciso o ferito e che alcuni combattenti sono fuggiti.
Nella prospettiva più volte invocata da Netanyahu e alleati di estrema destra, l’annientamento del nemico, non è quindi ancora tempo di parlare di cessate il fuoco e tregue. Secondo loro, la guerra di Gaza e quella “coloniale” in Cisgiordania devono continuare: fino a quando non si sa, ma si intuisce che pensano a tempi lunghi. E questo, nonostante la pressione diplomatica statunitense e i colloqui di Doha e del Cairo per scongiurare il forte rischio di un conflitto regionale incontrollabile; nonostante uno sciopero generale, poi bloccato da un tribunale, indetto dall’Histadrut, il principale sindacato israeliano; nonostante le manifestazioni di 500 mila israeliani che chiedono un accordo per la liberazione degli ostaggi, la tregua e le dimissioni del governo; nonostante la forte tensione interna nelle stesse istituzioni israeliane. E l’odio che tutto ciò incrementa a vantaggio di Hamas.
Nelle trattative di Doha e del Cairo si sono prospettate delle soluzioni, talora accettate da Hamas, ma sempre respinte da Netanyahu. I punti contestati riguardano il completo ritiro dei militari israeliani dalla Striscia di Gaza, compreso il corridoio Philadelphi lungo il confine con l’Egitto (14 km); il numero e l’identità dei prigionieri palestinesi da rilasciare in cambio degli ostaggi israeliani; la garanzia che il cessate il fuoco sia permanente e rispettato sia dal governo israeliano che da Hamas, Iran, Hezbollah (e Siria). Vale a dire l’“asse del male iraniano”, come li etichetta spesso Netanyahu, escludendo così a priori ogni possibile visione diversa dalla sua.
Dall’estate scorsa Netanyahu si è incaponito che la presenza militare israeliana nel corridoio Philadelphi (e in quello più a nord denominato Netzarim) è irrinunciabili per evitare che Hamas riprenda il contrabbando di armi dall’Egitto. Hamas non ne vuole sapere di questa occupazione di fatto permanente della Striscia di Gaza.
In effetti nel Piano Biden di maggio, appoggiato allora da Israele, questi corridoi militarizzati non erano così rilevanti. Lo sarebbero diventati alcuni mesi più tardi, dopo le minacce dei ministri di estrema destra Ben Gvir e Smotrich di lasciare il governo se Israele avesse accettato una tregua.
In contrasto con la linea governativa è anche la posizione del ministro Gallant, pur membro del Gabinetto di guerra: «Non è vero che per la nostra sicurezza è fondamentale mantenere l’occupazione del corridoio Philadelphi, se dovesse servire potremmo riprenderne il controllo in 8 ore al massimo». Il leader dell’opposizione, Yair Lapid, ha osservato recentemente: «Israele ha evacuato il corridoio Philadelphi 19 anni fa, Netanyahu ha votato a favore. Poi è stato primo ministro per 15 anni e non gli è mai venuto in mente di riprenderne il controllo. Si è preoccupato di inviare le forze israeliane nel corridoio solo 8 mesi dopo l’inizio dell’attuale guerra».
Per quanto riguarda il principale promotore delle trattative tra Israele e Hamas in vista del rilascio degli ostaggi israeliani e l’avvio di un cessate il fuoco, vale a dire gli Usa, occorre tenere naturalmente conto che il principale mediatore è anche il maggior fornitore di armi a Israele (65-68% delle forniture militari complessive). Questo mette in teoria gli Usa in una posizione di forza e insieme di debolezza. Ma occorre tenere altrettanto conto che in questo momento gli Stati Uniti sono impegnati, com’è noto, in una difficile campagna presidenziale. E se le posizioni dei due candidati alla presidenza Usa sulla guerra di Gaza non sono chiarissime, è invece evidente che il conflitto mediorientale sta per molti versi avvelenando ancora di più lo scontro elettorale Harris-Trump. Kamala Harris pare più sensibile alla “catastrofe umanitaria” ed è percepita come più vicina alla causa palestinese (almeno rispetto al presidente Biden), pur mantenendosi su posizioni moderate.
Donald Trump con il suo tipico linguaggio sfrontato e aggressivo (che sembra comunque piacere a non pochi americani) ha detto che la Harris odia Israele e che, se diventerà presidente, lo Stato ebraico scomparirà nel giro di due anni. Messaggio evidentemente rivolto agli oltre 6 milioni di ebrei americani, che in maggioranza e per tradizione votano democratico.
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