Israele: la deterrenza si chiama apartheid

Per ottenere una qualche maggioranza di governo, Benjamin Netanyahu, vincitore delle ennesime elezioni israeliane di fine 2022, ha cercato alleati non solo fra gli ultraortodossi, ma anche in un’ultradestra molto pericolosa, costitutivamente anti-palestinese. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
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Benjamin Netanyahu (Abir Sultan/Pool Photo via AP)

L’apertura della seconda edizione del Forum del Negev, prevista per domenica scorsa 25 giugno, poi spostata a metà luglio, a Rabat, non c’è stata e per ora non ci sarà, rinviata a data da destinarsi e se le condizioni lo permetteranno. Lo ha dichiarato venerdì 23 giugno Nasser Bourita, ministro degli Esteri del Marocco, Paese che si era offerto di ospitare l’importante dialogo.

L’iniziativa del Forum è sorta nel quadro degli Accordi di Abramo 2020 fra alcuni Paesi arabi e Israele, e nella non celata aspirazione, anche israeliana, di allargare il dialogo anche all’Arabia Saudita. Il Forum sfumato, per ora sospeso, prevedeva l’incontro a Rabat dei ministri degli Esteri di Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco, Egitto e Stati Uniti. Ciò che ha spinto a sospendere il già di per sé difficile processo di avvicinamento non è paradossalmente il venir meno di qualcuno degli attori o della volontà di procedere, ma la sopravvenuta formazione (dicembre 2022) del VI governo Netanyahu, che per ottenere una qualche maggioranza ha voluto, o dovuto, cercare alleati sempre più a destra, tra partiti ultraortodossi e formazioni di estrema destra, anti-palestinesi per costituzione.

Haggai Matar, noto giornalista israeliano, pacifista  e direttore di +972 Magazine, più volte incarcerato per il suo attivismo di denuncia delle violazioni dei diritti umani e impegnato a contrastare l’apartheid dei palestinesi ed a promuovere  la libertà di informazione, sostiene che dopo il tentativo dei mesi scorsi da parte del governo Netanyahu di controllare la Corte Suprema (tentativo sospeso per le forti proteste popolari); dopo l’approvazione di un bilancio biennale che aumenta in modo significativo i finanziamenti ai coloni ebrei dei “Territori” (che sarebbero ormai oltre 700mila); da maggio scorso è iniziata la terza fase, quella del contrasto diretto ai palestinesi, sostenendo una “annessione” di fatto dei Territori con la violenza e la repressione. O, come afferma il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, per “ristabilire la deterrenza” al terrorismo palestinese.

Com’era prevedibile (non solo dal buon senso ma probabilmente anche dai falchi israeliani), l’azione ha scatenato «un circolo vizioso senza fine, nel quale le violenze di questa settimana, alimentate da un’occupazione sempre più soffocante, sono soltanto l’ultimo episodio», scrive Claudio Fontana su oasiscenter.eu del 23 giugno scorso.

«Le violenze sono incominciate lunedì [19 giugno] – continua Fontana –, quando un arresto da parte delle forze israeliane a Jenin, in Cisgiordania, ha incontrato una resistenza inaspettata. Nello scontro a fuoco che ne è seguito, durato fino al tardo pomeriggio, sono stati uccisi sei palestinesi, tra i quali un quindicenne, e ferite 91 persone. Sono sette, invece, i soldati israeliani feriti. L’esercito israeliano ha dovuto far entrare in azione alcuni elicotteri d’attacco per portare a compimento la missione e, soprattutto, permettere il ritiro dei militari».

Nel campo profughi di Jenin, è doveroso ricordarlo, a maggio 2022 era stata uccisa dai militari israeliani la giornalista di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, che stava documentando un’operazione dell’esercito israeliano. Alcuni esperti hanno osservato che è la prima volta dopo vent’anni (dalla Seconda Intifada) che l’esercito israeliano fa uso in Cisgiordania di elicotteri da guerra contro la resistenza palestinese.

Per avere un’idea della gravità della situazione e delle dimensioni dello scontro, dall’inizio del 2023, cioè in meno di sei mesi, sono morti almeno 160 palestinesi e 21 israeliani in scontri a fuoco, tra Cisgiordania e Striscia di Gaza.

In questo clima, il ministro israeliano per la sicurezza nazionale e leader di “Potere ebraico”, Itamar Ben-Gvir, ha dichiarato: «Abbiamo bisogno di un ritorno alle uccisioni mirate dal cielo, all’abbattimento di edifici, alla creazione di posti di blocco, all’espulsione dei terroristi e, infine, dobbiamo approvare la legislazione sulla pena di morte per i terroristi».

Occorre inserire queste affermazioni nel contesto del programma del suo partito, che invoca l’annessione della Cisgiordania, rifiuta l’idea stessa di uno Stato palestinese, chiede la cancellazione degli accordi di Oslo e la piena sovranità ebraica sul Monte del Tempio, vale a dire la Spianata delle Moschee, e sostiene l’abolizione di tutte le restrizioni alla costruzione di insediamenti israeliani in Cisgiordania.

Infatti, il governo ha annunciato il 21 giugno che approverà a breve la costruzione di mille unità abitative e dopo qualche giorno ha aggiunto un ulteriore concessione per la costruzione di altre 4.700 abitazioni, tutte rigorosamente per coloni ebrei, tutte in Cisgiordania, tutte illegali secondo le norme internazionali.

Evidente che la cosiddetta “deterrenza” di Smotrich potrà solo provocare reazioni violente da parte delle milizie palestinesi, jihadiste o meno. Aaron David Miller, ebreo statunitense, già consulente di diversi presidenti Usa e coordinatore di vari negoziati arabo-israeliani, rileva: «Si sta scatenando una tempesta perfetta: un’occupazione israeliana vecchia di 56 anni; il più estremista dei governi israeliani; cellule sostenute da Hamas e dalla Jihad islamica e gruppi palestinesi indipendenti nella West Bank che pianificano attentati terroristici. Un sanguinoso cul-de-sac senza via d’uscita».

Dopo questo tutt’altro che esaustivo sommario, si capisce comunque meglio l’affermazione del ministro degli Esteri del Marocco, Nasser Bourita, del 23 giugno, per spiegare la sospensione del dialogo di Rabat: «Il Forum del Negev rappresenta un’idea di cooperazione e dialogo, contraria a tutto ciò che è un’azione provocatoria, un’azione unilaterale o una decisione portata dai radicali da entrambe le parti, ma soprattutto da parte israeliana, in relazione ai territori arabi occupati».

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