Israele e Gaza sotto le bombe: migliaia di morti israeliani e palestinesi
Dopo 5 giorni, il bilancio delle vittime degli attacchi terroristici di Hamas su Israele è di oltre 1.200 morti israeliani (ma tra loro ci sono anche alcuni americani e tedeschi), più di 2.800 i feriti, alcuni molti gravi. Ci sarebbero anche 750 dispersi. Tra 130 e 200 gli ostaggi (anche bambini e anziani) rapiti e deportati nella striscia di Gaza dai miliziani di Hamas e della Jihad islamica.
Secondo il Jerusalem Post, nei pressi del confine di Gaza, in territorio israeliano, sarebbero stati ritrovati i corpi di circa 1.500 palestinesi. Dopo le prime reazioni militari israeliane, secondo fonti palestinesi di Gaza, nella Striscia i morti palestinesi sarebbero quasi 900 e i feriti oltre 4 mila. Ma sono numeri che, mentre, scrivo sono già purtroppo da aggiornare, perché gli attacchi missilistici da Gaza proseguono e l’esercito israeliano si è attivato e sta stringendo la morsa su Gaza. Com’è noto, fonti di Hamas hanno minacciato di uccidere uno a uno di fronte alle telecamere gli ostaggi, se Israele continuerà a bombardare Gaza. Ma gli israeliani non hanno alcuna intenzione di fermarsi, anche di fronte alla minaccia.
In questi momenti a chi come noi è fuori dal contesto immediato di paura, indignazione e morte, la domanda che ci assale è soprattutto: come è possibile che sia successo tutto questo?
Ho trovato molto indicative alcune considerazioni di un giornalista israeliano, che ha cercato in questi giorni di leggere il dramma: si tratta di Haviv Rettig Gur, del Times of Israel. Il 9 ottobre ha scritto fra l’altro: «Dov’era l’esercito? Dov’era il potente stato israeliano? (…) Le grandi Forze di Difesa Israeliane, un’istituzione da 64 miliardi di shekel all’anno, sembravano evaporate nel momento di più disperato bisogno (…) Fino a sabato gli israeliani credevano di essere forti e al sicuro. Sabato hanno iniziato a capire di non esserlo affatto».
E continua: «Ora abbondano le teorie sulle motivazioni di Hamas per questo attacco. Molti pensano che vi sia stato un ordine dell’Iran per interrompere la normalizzazione israelo-saudita (e infliggere indirettamente un colpo ai contestatori interni del regime di Teheran). Altri puntano l’attenzione sulla politica interna palestinese, per cui Hamas non starebbe facendo altro che accumulare meriti, anche a costo di un’inevitabile pesante reazione israeliana, per proporsi come campioni indiscussi della lotta palestinese dopo la dipartita di Abu Mazen. Altri ancora sottolineano che l’Iran, stretto alleato di Mosca, non avrebbe dato il via senza l’ok di Putin, interessato a mettere in difficoltà l’Occidente e i suoi alleati ovunque possibile».
E conclude il suo pezzo con questa amara considerazione: «Un Israele sicuro di sé può dedicare molto tempo e risorse alla preoccupazione delle ricadute umanitarie di una guerra aperta a Gaza. Un Israele vulnerabile non se lo può più permettere».
Parole tremende, queste ultime. Comprensibili, forse, ma nelle teste sbagliate potrebbero aprire la strada alla stessa prospettiva che anima la visione di Hamas, che è molto vicina se non la stessa che fu di Adolf Hitler: la soluzione finale. La destra estrema israeliana che sostiene il governo sembra ammiccare da tempo ad un fac-simile di questa disumana prospettiva nei confronti dei palestinesi. Magari solo cacciandoli, invece che sterminandoli proprio tutti. C’è solo da sperare che l’ignobile attacco di Hamas di questi giorni non spinga neppure un pezzetto dell’opinione pubblica israeliana verso questo orrore. Negli ultimi anni, la “politica dell’odio” ha fatto già fin troppi adepti in tutto il mondo, non solo in Israele-Palestina.
Dall’altra parte, quella dei terroristi, il linguaggio è da tempo stereotipato e a senso unico: eliminare il nemico. Per ottenere scopo e consenso ogni menzogna diventa legittima, come l’affermazione di Moḥammed Deif, comandante militare di Hamas, che sabato ha giustificato l’attacco per bloccare la demolizione israeliana – data per imminente – della moschea di Al-Aqsa, a Gerusalemme. E Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, ha esortato «tutti i musulmani di tutto il mondo a schierarsi in questa giusta guerra a difesa di Al-Aqsa e della missione del Profeta». La sua truculenta concezione della missione del Profeta, grazie a Dio, non è quella della maggioranza dei musulmani.
Shaul David Judelman, rabbino israeliano che vive in una colonia e fondatore, assieme al palestinese Khaled Abou Awad, del movimento Shorashim-Judur (Amici delle radici), che promuove il dialogo e la convivenza fra i due popoli, ha raccontato a Dario Salvi di AsiaNews: «Fra le persone prelevate [ostaggi] vi sono anche attivisti nell’area che, in passato, si sono spesi per il dialogo«. E prosegue: «è necessaria una pressione internazionale su Hamas per il rilascio degli ostaggi, dei bambini».
Ma sarebbe altrettanto necessaria – auspica il giornalista di AsiaNews – una presa di posizione forte del mondo musulmano, di Fatah e di quanti si oppongono a una deriva estremista. Auspicio molto difficile da accettare per tanti autentici e invisibili musulmani, che pur condividendo il netto rifiuto dell’estremismo islamista, non possono dissociarlo dallo sdegno per l’ingiusta e aggressiva politica anti-palestinese, che non è solo anti-terrorismo palestinese, ma anti tutto il popolo di Palestina. Questo fino a sabato scorso: poi è arrivata, non del tutto imprevedibile, la guerra.
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