Israele dopo la vittoria di Netanyahu
Nonostante le previsioni il Likud, il partito di centrodestra del premier Benjamin Netanyahu, ha vinto le recenti elezioni politiche israeliane del 17 marzo 2015. Il Likud ha conquistato 30 dei 120 seggi della Knesset, il parlamento israeliano destinato a durare quattro anni. L’Unione sionista, di centro sinistra, ha ottenuto 24 seggi, mentre al terzo posto è arrivata la “Lista araba unita” con 13 seggi.
Grazie alle alleanze definite solidamente con altri partiti minori, il governo di Netanyahu possiede tutte le premesse per durare a lungo. Poco più di 4 milioni di elettori hanno così determinato dei risultati destinati inevitabilmente ad incidere sui futuri scenari geopolitici a livello mondiale. Sulla questione abbiamo chiesto il parere di Matteo Colombo, ricercatore, per l’area Mediterraneo e Medio Oriente, dell’Istituto per gli studi di politica internazionale.
Le recenti elezioni in Israele sembrano aver consolidato un “esecutivo di guerra”. Come si spiega questa scelta in un Paese che vive da sempre in uno stato di conflitto?
«Lo “stato di guerra” caratterizza da sempre la storia di Israele e ciò ha profonde conseguenze per la psicologia collettiva dei cittadini di questo Paese. Netanyahu ha puntato molto sulla sua capacità di garantire la sicurezza interna, che significa avere ridotto il numero degli attentati terroristici esplosivi e avere assicurato una migliore difesa dai razzi lanciata da Hamas, grazie al sistema Iron-Dome. La retorica del premier israeliano punta a sfruttare lo stato d’animo di pericolo e accerchiamento che caratterizza una parte della società israeliana, come dimostra il caso del nucleare iraniano. Il pericolo per Israele è al momento quasi del tutto assente, visto che la repubblica Islamica non ha le capacità tecniche per minacciare Tel-Aviv, ma l’insistenza di Netanyahu su questo tema e più in generale sulla precarietà dell’esistenza stessa di Israele serve alle destre per ottenere voti. Il messaggio è semplice ed efficace: “gli altri vi odiano, noi vi proteggiamo”».
Che tipo di reale consenso ha la lista araba (terzo partito) tra gli arabi israeliani?
«Questa lista è stata la vera sorpresa delle elezioni. La scelta dei tre principali partiti arabi è inizialmente dovuta al fatto che è stata elevata la soglia elettorale al 3,25 per cento e perciò rischiavano di non eleggere alcun rappresentante. Ciò ha garantito un ottimo risultato (10,54 per cento), superiore di circa 2 punti rispetto alla somma dei voti ottenuti dai partiti arabi nelle scorse elezioni. L’incremento si deve soprattutto ai voti degli arabi israeliani che di solito non partecipano al voto o scelgono i partiti di sinistra (in particolare Meretz). Inoltre è importante sottolineare che il tema delle minoranze interne a Israele ha giocato un ruolo fondamentale nella campagna elettorale e il dibattito si è incentrato sulla definizione di “sionismo” e di identità israeliana. Da una parte, i partiti di destra hanno legato questo tema a un principio “etnico” e in parte “religioso”, dall’altra la sinistra difende una visione più inclusiva di tale ideologia nazionale».
A proposito dello “stato di guerra”, sembrano in crescita, dopo le recenti operazioni militari a Gaza, i casi di obiezione di coscienza tra i soldati israeliani. È un fenomeno che sta preoccupando i vertici di Tel Aviv?
«È vero che sembra esserci un numero crescente di israeliani che sceglie di non servire nell’esecito e c’è una crescente preoccupazione all’interno dei vertici militari e politici di Tel-Aviv su questo tema, ma per ora il numero dei refusenik(obiettori,ndr)resta basso. Negli ultimi mesi c’è stato tuttavia un caso eclatante, che ha aperto un dibattito molto interessante all’interno della società e della politica israeliana: la lettera aperta, scritta a Netanyahu da 43 riservisti dell’intelligence, che giustificavano la scelta di non lavorare per i servizi segreti come una protesta nei confronti del trattamento riservato ai palestinesi. Questo documento è stato pubblicato dal principale giornale israeliano lo scorso settembre. Tale presa di posizione pubblica contraddice la narrativa di una parte del mondo politico israeliano sul tema, che spesso descrive i giovani che si rifiutano di servire nell’esercito come ragazzi “viziati” e “poco patriotici”, visto che in questo caso si tratta di ex ufficiali dell’esercito».
Come ha inciso la crisi economica sul risultato elettorale? Dovremmo attenderci nuove espulsioni di immigrati come è avvenuto di recente?
«Il problema economico più sentito in Israele è quello delle abitazioni. È stato calcolato che questo Paese è necessario l’equivalente di 148 mesi di salario per comprare una casa. È una cifra di molto superiore alla media dei paesi europei (64 Gran Bretagna, 74 Francia). Nel 2008 in Israele bastavano “solo” 96 mesi. Questo aumento dei prezzi è tra i temi principali della sinistra, che spesso sottolinea anche le profonde disuguaglianze economiche di questa società. Nel 2013 Israele era la quinta nazione OCSE per quanto riguarda l’indice Gini, che misura le differenze interne di reddito: è uno dei risultati più alti tra le nazioni sviluppate. Tuttavia, è importante sottolineare che Israele presenta anche alcuni dati economici positivi (crescita 2014 +2,6 per cento, disoccupazione 2014 al 6,3 per cento).
Per quanto riguarda l’immigrazione, negli ultimi dieci anni si sono trasferiti in Israele diversi richiedenti asilo provenienti dall’Africa e sono di conseguenza emersi diversi atteggiamenti ostili da parte di alcuni settori della società. Il governo ha così deciso una nuova politica per quanto riguarda questo fenomeno, che prevede di trasferire in Ruanda i richiedenti asilo che si trovano nel centro di detenzione di Holot. Si tratta soprattutto di sudanesi ed eritrei che hanno ottenuto il permesso per ragioni umanitarie in Israele, ma sono stati fermati dalla polizia perché il loro documento era scaduto.
Come potranno andare avanti gli accordi di Losanna sul nucleare iraniano con una maggioranza repubblicana al Congresso che ha addirittura chiamato il leader della destra israeliana negli Usa per accusare Obama?
«Bisogna sottolineare che non tutti i repubblicani si oppongono agli accordi di Losanna. In particolare, è interessante capire se il tentativo Bob Corcker, responsabile delle relazioni estere per il G.O.P. (great old party, cioè il partito repubblicano, ndr), di creare una coalizione bipartisan per approvare questo negoziato avrà successo o meno. La battaglia al momento sembra aperta, soprattutto dopo la lettera di 47 senatori repubblicani contro l’accordo, ma non è impossibile che il Congresso decida di sostenere Obama.
Per quanto riguarda l’invito del Congresso a Netanyahu, questo è servito soprattutto al premier israeliano per dimostrare di avere ancora il sostegno di almeno una parte del mondo politico americano. Non è un mistero che le relazioni con l’amministrazione Obama non siano positive ed è perciò probabile che alcuni esponenti di rilievo del partito repubblicano abbiano cercato di aiutare l’”amico Bibi” (diminutivo di Netanyahu) nella sua campagna elettorale».
Secondo le notizie di agenzia, l'esercito israeliano sulle alture del Golan ha rivolto le armi verso le truppe regolari siriane e non contro quelle dei ribelli islamisti: come si legge una contraddizione del genere? Quale strategia sembra seguire il governo israeliano?
«Non è una contraddizione. Israele ha due problemi ai confini: Hezbollah, sostenuto dal governo iraniano e di Damasco, e Hamas, che è formalmente legata ai Fratelli musulmani. Sono gli stessi nemici dell’Arabia Saudita e del cosiddetto blocco sunnita (Stati del Golfo ed Egitto), che proprio in questi giorni stanno combattendo i ribelli Houthi in Yemen. È evidente perciò che il principale interessa per la sicurezza di Tel-Aviv non sia di indebolire i ribelli islamisti, ma di colpire il regime di Assad, che è il principale alleato di Teheran. Infatti, le operazioni israeliane in Siria sono avvenute nei mesi scorsi e sono servite quasi esclusivamente per impedire il rifornimento di armi iraniane a Hezbollah.
Per quanto riguarda i ribelli, ai confini di Israele si trovano alcune basi di al-Nusra (al-Qa’ida) sulle alture del Golan, ma per il momento il gruppo ha la priorità di difendersi dagli attacchi di Assad e consolidare alcune alleanze tattiche con altri gruppi operanti nel paese. Al momento qualsiasi attacco di questa brigata jihadista a Israele è del tutto irrealistico. Lo stessa valutazione si applica ai principali gruppi armati islamisti, in particolare il Fronte islamico, che al momento non hanno né la volontà né la forza per sfidare l’esercito di Tel-Aviv».