Ispirata o manipolatrice?
Ci scrive il lettore Sergio Rizzato: «Ho assistito ieri, 8 giugno, al programma su Rai 3 “Quante storie”, diretto dal giornalista Giorgio Zanchini, il quale ha intervistato due storiche – Anna Foa e Lucetta Scaraffia − e poi ho letto il servizio di Paolo Mieli sul Corriere della sera in cui si parlava di Elena Hoehn e di Celeste Di Porto, entrambe imprigionate con l’accusa di delazione di famiglie ebree di Roma, e che ha portato al massacro di queste famiglie alle Fosse ardeatine. Ho letto anche un articolo di Città Nuova on line di qualche tempo fa che parlava del rapporto di Chiara Lubich con Elena Hoehn. Vorrei un chiarimento sulla nostra rivista, poiché nei due servizi citati (di Giorgio Zanchini e di Paolo Mieli) si parla di una certa ingenuità di Chiara Lubich, mentre nell’articolo della nostra rivista si parla di conversioni».
La storia è un affare complesso, parlo di quella seria, quella degli storici. Perché molto spesso, per la mancanza di prove provate su episodi del passato, il ricercatore è costretto a formulare delle ipotesi, prendendo i rischi di sbagliarsi, oppure di indovinare qualche tratto di vita umana. Qualche anno fa, Armando Droghetti, focolarino, tracciò un ritratto agiografico di Elena Hoehn – Elena Hoehn. Protagonista della storia italiana, San Paolo 2012 −, una donna tedesca che, a un certo punto del suo percorso umano, nel 1948, incrociò Chiara Lubich e, assieme a suo marito Luigi Alvino, l’aiutò a installarsi a Roma con il focolare che veniva da Trento. Tanto che la Lubich volle soprannominarla Frate Jacopa, in memoria della nobildonna che tanto aveva aiutato Francesco d’Assisi. L’incontro avvenne a Trento, per una storia di quelle difficili, di quelle cioè che possono apparire d’emblée straordinarie ma che poi, a una analisi più attenta, si rivelano invece ambigue.
Elena Hoehn era stata implicata in una discussa e tragica vicenda che aveva avuto come protagonisti l’autore dell’arresto di Mussolini al Gran Sasso, il colonnello Giovanni Frignani: lui e altri tre personaggi invisi ai tedeschi, furono arrestati proprio a casa della Hoehn e qualche giorno più tardi furono giustiziati alle Fosse ardeatine. Elena fu imprigionata e, nel processo che la vide protagonista, fu assolta per la testimonianza scagionante della moglie di Frignani, Lina. In carcere la Hoehn conobbe Celeste Di Porto, di famiglia ebraica, accusata di aver “venduto” ai nazisti alcuni correligionari. La Hoehn, che si era da poco fatta cattolica, da protestante che era, nello zelo apostolico riuscì a “convertire” pure Celeste Di Porto.
Uscite entrambe dal carcere – Elena assolta, Celeste condannata ma in modo relativamente lieve −, si ritrovarono in una difficile situazione, perché la Di Porto era ricercata da alcuni correligionari e soprattutto dai comunisti, tanto da temere per la sua incolumità. Il vescovo di Assisi, mons. Giuseppe Placido Nicolini, uomo coraggioso che aveva salvato centinaia di ebrei dalla morte – divenne un “giusto delle Nazioni” – suggerì di affidare Celeste alle cure del focolare di Trento, che conosceva bene in quanto amico del vescovo locale, mons. Carlo de Ferrari. Il contatto fu rapido, e Celeste Di Porto visse alcuni giorni, forse un paio di settimane, in una casa abitata dalle focolarine di Trento. Ma non era un personaggio facile, tutt’altro, al punto che si decise che non poteva più restare a Trento, dove era stata riconosciuta perché non conduceva una vita ritirata, come sarebbe stato opportuno. Gino Lubich, fratello di Chiara Lubich e partigiano di rilievo nella città, raccomandò molta prudenza alla sorella, perché Celeste Di Porto era accusata di gravissimi reati.
Anna Foa e Lucetta Scaraffia, storiche nelle università romane, la prima ebrea e la seconda cattolica, già unite dall’avventura del mensile “scritto da donne” dell’Osservatore Romano, si sono imbattute nella vicenda delle due donne e hanno voluto scavare dentro i tanti misteri che avvolgono ancora le vicende delle due protagoniste. Hanno così pubblicato un volume, Anime nere (Marsilio 2021), nel quale analizzano attentamente le vicende delle due donne, arrivando alla fine, pur nella mancanza di certezze definitive, a ipotizzare un duplice infingimento: Celeste che si converte per salvarsi, Elena che entra nel movimento dei focolarini per redimersi.
La vicenda ha suscitato un certo stupore, perché “Frate Jacopa” era considerata una collaboratrice importante nel cammino carismatico della Lubich, la quale, a dir il vero, mai fece mancare la sua riconoscenza ad Elena, fino alla sua morte, avvenuta il 20 febbraio 2000, a cent’anni di età. Il libro di Droghetti, un lavoro che non si è dotato degli strumenti atti a scavare o verificare le affermazioni della Hoehn, ha contribuito a creare un’aura di fervore spirituale attorno a lei. I dati esposti dalle autrici mostrano invece una personalità assai complessa, doppiogiochista, tutt’altro che fedele al marito, un uomo che sembra aver fatto fortuna stringendo affari con l’occupante nazista. C’è di più, perché Alvino aiutò non solo la Lubich e le sue prime compagne, ospitandole e poi trovando un appartamento per alloggiarle, ma divenne finanziatore di un giornale, La via, diretto e in gran parte scritto da Igino Giordani, cofondatore dei Focolari.
Effettivamente le autrici hanno riconosciuto che la Lubich e i focolarini non potevano essere al corrente delle vicende pregresse della Hoehn, mentre erano parzialmente al corrente di quelle della Di Porto: se avevano ospitato quest’ultima, era stato per semplice carità cristiana (e a richiesta di un vescovo), forse peccando di una certa ingenuità, mentre il connubio con la Hoehn era nato per la semplice adesione di Elena alla spiritualità della Lubich. Mieli, Zanchini ed altri, come gli storici Roberto Pertici e Amedeo Osti Guerrazzi ritengono che l’ingenuità della Lubich fosse anche dovuta da una parte a un “disprezzo cattolico” della giustizia umana – se mi converto, non debbo più sottostare alla giustizia ordinaria – e dall’altra a una “leggerezza” nella conoscenza dei cuori delle persone, tantopiù da parte di una donna per la quale è in corso un processo di beatificazione. Ma qui entriamo nel campo minato delle interpretazioni. L’analisi dei fatti non porta automaticamente, secondo il modesto parere del sottoscritto, a una sorta di ingenuità colpevole della Lubich e di Giordani.
Nessun dubbio vi è tuttavia sul fatto che la vicenda delle due donne debba essere sottoposta ad attenta analisi storica, analisi che – possa piacere o no – infrange almeno in parte l’opinione finora corrente tra i cattolici, ma non solo va detto, che cioè la Hoehn e la Di Porto fossero delle persone realmente convertite e addirittura perseguitate da chi voleva loro del male. Il ritratto della Hoehn tracciato dalle autrici è a tratti impietoso. E tuttavia, perché avere paura di gettare una luce di verità su fatti realmente accaduti? Hanno tutti da guadagnarci. Gli archivi della Hoehn, in fase di catalogazione, potranno forse gettare un po’ più di luce veritiera sulle vicende di cui si parla.
Mi si permetta, però, di non essere d’accordo con le due autrici su una questione: la sincerità della “conversione” della Hoehn, dopo aver incrociato i passi di Chiara Lubich: non credo si possa dire che il suo comportamento verso i focolarini fosse solo dettato dal disegno strumentalizzante di “rifarsi una verginità”. Non solo perché nessuno può mai dire se una conversione è veramente tale, solo Dio in effetti legge nei cuori, ma anche perché Elena Hoehn rimase fedele alla sua “nuova vita” fino alla sua morte in età avanzatissima, ad Assisi. Certo, alcuni comportamenti anche recenti possono ancora porre dei dubbi sulla sua sincerità, ma non si può nemmeno affermare con certezza la falsità dei suoi moti spirituali. Più plausibile, semmai, appare invece l’ipotesi che la Di Porto si fosse convertita per interesse: il memoriale della sua conversione, in effetti, lascia adito a forti dubbi, anche perché sembra frutto più della verve spiritualista della Hoehn (a cui la Di Porto l’aveva dettato) che della semplicità popolare e finanche un po’ grossolana della figlia del ghetto romano.