Islam e Occidente
Nel lessico politico internazionalistico si usano con leggerezza formule oppositive generiche e dozzinali, come ad esempio la contrapposizione tra l’Occidente e l’Islam.
Da una parte, si evoca l’Occidente, che, in senso stretto, è una denominazione geografica, come un insieme di idee, caratteri culturali, soluzioni istituzionali e strutture economiche considerate in modo unitario, come distintive e peculiari.
Dall’altra parte, si usa la denominazione di “Islam”, che è un termine con una forte connotazione religiosa e culturale, come una definizione geopolitica di un’importante area del mondo.
Si tratta di un caso in cui la terminologia è cruciale. Non solo si allineano due definizioni che in linea di principio non sono comparabili, ma implicitamente si presuppone anche che ciascuno dei due termini implichi una porzione del mondo unitaria e omologa.
Nella mia esperienza professionale come diplomatico italiano, ho trascorso quattro meravigliosi e interessantissimi anni presso l’Ambasciata d’Italia a Washington, tra il 2002 e il 2006. L’impressione che ho ricavato da tale passaggio americano è che l’idea di un Occidente monolitico è semplicistica.
Ben più autorevolmente, questa tesi è stata sostenuta da Jürgen Habermas. Ci sono, in effetti, profonde differenze tra la cultura europea e quella americana. Per menzionarne solo alcune, si può citare lo scetticismo e la diffidenza di buona parte dell’opinione pubblica americana nei confronti del big government, vale a dire l’intervento dei pubblici poteri nella vita economica e nell’organizzazione spontanea della società.
Agli occhi di molti americani lo Stato sociale, considerato con orgoglio nel Vecchio continente come essenziale nella definizione di un modello europeo (benché in crisi e con molte ammaccature), è una manifestazione di un socialismo latente che soffoca la libera iniziativa. Un altro punto dirimente è la pena di morte, che è stata bandita in Europa e che invece continua a essere in vigore in molti Stati negli USA. Pertanto, lo stesso Occidente, nelle sue diverse articolazioni, risulta essere un mondo molto plurale e variegato.
Le stesse considerazioni si applicano all’Islam. Sappiamo molto bene che le declinazioni dell’Islam sono molto differenziate, e che importanti distinzioni vanno fatte quando si considerano i vari Paesi a maggioranza islamica e la loro storia politica e religiosa. Appare, dunque, del tutto improprio collocare nella stessa categoria, dal punto di vista del rapporto tra il sistema politico e la fede islamica, Paesi come l’Egitto e l’Iran, l’Arabia Saudita e la Turchia, il Pakistan e l’Albania. Per tacere dei molti Paesi occidentali in cui si registra una presenza importante e talvolta storicamente radicata di musulmani, come la Francia, la Germania, la Gran Bretagna, gli stessi Stati Uniti.
Un’altra fonte di confusione consiste nella sovrapposizione semantica che talvolta si riscontra nella pubblicistica e nel linguaggio comune tra mondo islamico e mondo arabo.
A questo riguardo, vorrei citare un’importante e preveggente relazione che il Parlamento Europeo approvò nel 2007 sulle «Riforme nel mondo arabo: quale strategia per l’Unione europea?». Nella relazione troviamo molte importanti e attualissime considerazioni. In primo luogo, il riconoscimento del «concetto di identità araba inteso come fattore unificante appare una caratteristica comune, e rivendicata come tale, dei popoli e degli Stati di una vasta zona geografica che si estende dal Maghreb al Golfo Persico passando per il Mashrek e il Vicino Oriente».
Al tempo stesso, c’è la coscienza di un’identità araba plurale, che si articola «in diverse realtà sia politiche (monarchie, repubbliche arabe, anche in seno allo Stato di Israele e all’Autorità palestinese) che religiose (musulmani sunniti, compresi i wahabiti, alawiti, drusi e sciiti, cristiani di confessioni diverse) e sociologiche (grandi città, zone rurali, montagne, popoli nomadi), pur comportando parametri transnazionali comuni». È un buon esempio, questo, di quanto sia necessario essere molto più accurati quando si usano definizioni generalizzanti, che rischiano di avere una denotazione troppo ampia e una connotazione troppo scarsa.
Prima e quanto meno in parallelo alla guerra al terrore, dovremmo combattere una molto più impegnativa guerra all’errore. O, per dirlo in termini diversi, dovremmo evitare il linguaggio collaterale nelle nostre narrazioni politiche, allo stesso modo in cui si dovrebbero ridurre i danni collaterali nelle azioni militari. Talvolta, infatti, il linguaggio plasma anche la percezione.
Edward W. Said nel 2001 scrisse un articolo intitolato Lo scontro dell’ignoranza stigmatizzando l’uso di etichette indefinite come Islam e Occidente, poiché esse sono fuorvianti e «confondono la mente che tenta di dare un senso a una realtà disordinata. Passioni primordiali e un sofisticato know-how convergono per creare un confine fortificato non solo tra l’Occidente e l’Islam, ma anche tra passato e presente, noi e loro, per non parlare degli stessi concetti di identità e nazionalità sui quali non c’è accordo e rispetto ai quali il dibattito è infinito. Tale attitudine dimostra quanto sia molto più semplice pronunciare dichiarazioni bellicose allo scopo di mobilitare passioni collettive piuttosto che riflettere, esaminare, comprendere quello di cui davvero stiamo trattando, e cioè l’interconnessione di innumerevoli esistenze, le “nostre” e le “loro”».
Cercando di prendere una qualche distanza prospettica dalle tensioni del presente, «è molto meglio – scrive Said – pensare in termini di comunità potenti e comunità impotenti, di politica laica della ragione e dell’ignoranza, di principi universali di giustizia e ingiustizia, che andare in cerca di grandi astrazioni che possono offrire qualche momentanea soddisfazione ma ben poca conoscenza di sé o un’analisi informata».
Sono convinto che le differenze che Samuel Huntington tenta di fissare nel concetto di “scontro delle civiltà” siano di natura geopolitica più che di carattere religioso o culturale. Credo, anzi, che l’identificazione di confini tra le culture sia un’impresa impossibile.
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Non è inoltre possibile usare la geografia come un criterio oggettivo di identificazione. Tutte le rappresentazioni cartografiche sono concettuali; non esiste un mondo oggettivamente diviso in Paesi sulla base di precisi confini: si tratta di una costruzione mentale. La geografia è ben lungi dall’essere una scienza della natura, è una scienza sociale. Ad esempio, secondo Martin W. Lewis e Karen E. Wigen, persino il concetto di “continente” è soggetto a libera interpretazione. In effetti, le distinzioni geografiche rappresentano altrettanti esercizi di “meta-geografia”. Ciò è particolarmente vero proprio in relazione all’artificiale dicotomia Occidente/Islam.
L’idea di Occidente è stata declinata, storicamente, in versioni geografiche molto diverse. La porzione di terre emerse della superficie terrestre denotata come Occidente varia in modo radicale nelle concezioni politiche e persino filosofiche. Da un lato estremo dello spettro semantico, l’Occidente includeva la sola Inghilterra della Rivoluzione industriale.
Un’altra rappresentazione mediana ruotava attorno a un Occidente “minimo”, costituito essenzialmente dalla Gran Bretagna, dalla Francia, dai Paesi Bassi e dalla Svizzera; vi è poi l’Occidente “storico” della cristianità medievale (intorno al 1250); l’Occidente “atlantico” della Guerra fredda; l’Occidente “globale” della modernizzazione. Ad esempio, nella prospettiva di Arnold Toynbee, l’intero globo si troverebbe sotto l’egemonia occidentale in un modo o nell’altro.
Si tratta, come si vede, di un confine mobile, il che è una contraddizione strutturale e logica. Altri approcci combinano identità e geografia. È un indubbio merito epistemologico di Huntington l’aver reintrodotto nel dibattito internazionalistico il concetto di civiltà; il problema è che esso viene formulato in termini prevalentemente di scontro e non di connessione. Una nozione di civiltà così congegnata è dunque essenzialmente strategica, e alimenta, in definitiva, la falsa percezione di uno stato d’assedio (specie dell’Occidente).
Un punto importante da sottolineare è che c’è un legame evidente tra l’identità europea e la civiltà islamica (come tra l’Europa e l’eredità giudaico-cristiana). Per diversi secoli, il mondo arabo-islamico è stato infatti politicamente presente in Europa e nel Mediterraneo, e non solo in termini di conflitto e di contrapposizione. C’è, pertanto, la necessità di un’evoluzione da un approccio negativo, che ha storicamente plasmato l’immagine dell’Islam come nemico, al riconoscimento di un’influenza reciproca. In oltre 1.500 anni ci sono state diverse fasi di divisione culturale e religiosa tra il continente europeo e la regione mediterranea. Ogni fase ha comportato una diversa definizione dell’identità dell’altro.
Da Religioni e relazioni internazionali. Atlante teopolitico di Pasquale Ferrara (Città Nuova, 2014)