Irrompe la realtà
E’ l’ora del cinema civile?
È in uscita l’ultimo film di Marco Tullio Giordana, un regista molto attento alla società italiana. Lo dimostrano, fra gli altri, lavori come I cento passi e Pasolini un delitto italiano. Oggi con Nome di donna affronta la realtà delle donne sfruttate e molestate sessualmente, quelle oggetto dei “complimenti” da parte del padrone, come si diceva una volta. Il film, scritto tre anni fa, denuncia una situazione pesante e continua, ed esce appunto, con una indubbia astuzia pubblicitaria, in questi giorni. La storia è semplice. Nina, madre single, lavora in un hotel per ricchi anziani. È una donna bisognosa di affetto e di lavoro, dal carattere determinato. Il direttore della casa di cura la circuisce e tenta di molestarla. Uno choc per lei, che però trova un silenzio omertoso nelle colleghe. Sanno tutto e tutto vedono, ma sono vittime dell’uomo, tacciono per non perdere il posto. Ciascuna di loro, poi, ha dietro una storia di sofferenza. Il sacerdote, capo del personale, copre il direttore. La ragazza non si arrende e nonostante paure, minacce, rimproveri, denuncia l’uomo che finisce con i complici sotto processo.
Il film ha un tono drammatico forte, quasi da trhiller in certi momenti, e funziona bene nello scandaglio psicologico dei personaggi, sia di Nina – una cangiante, decisa Cristiana Capotondi -, sia nel prete – un imponente Bebo Storti, uomo che ha messo “in tasca la misercordia” e sia del direttore – un viscido,tremendo Valerio Binasco. Ma la regia è attenta ai personaggi “secondari”, come l’amica straniera di Nina, una donna dal passato sventurato, cui presta corpo e volto una perfetta Anita Kravos. Un racconto dunque corale, dove il regista apre l’indagine su una società apparentemente pulita, ma ipocritamente malata, anche con uno sguardo sulla debolezza di alcuni uomini di chiesa. Giordana che tiene alta l’attenzione con colpi di scena, dialoghi scarni ed efficaci, una fotografia capace di cangiantismi di luce e colore ad effetto, scivola tuttavia ad un certo momento su un tono idelogico-retorico che nuoce al film così sobrio e icastico, peraltro ottimamente recitato e diretto.
È un film di denuncia anche la commedia francese Benvenuti a casa mia? Il solito intellettuale sinistrorso chic, con bella casa, bella moglie Sophie che si dedica all’arte, figlio unico adolescente, è uno scrittore di successo con il libro A braccia aperte. È accogliente verso gli immigrati, i diversi, nel caso i Rom. Il professor Jean-Etienne Fougerole però viene provocato in televisione da un giovane avversario di destra: perchè non porta i Rom a casa sua? Pressato anche dall’editore, che fiuta altri soldi per il libro, accetta e la confusione entra in famiglia con il gruppo del clan rom guidato dall’intraprendente Babik. La moglie è sconvolta, il figlio fa la corte alla ragazzina rom, controllata dal padre perchè non perda l’onore, ma i ragazzi sono uguali dappertutto… Succede di tutto, anche nei rapporti tra marito e moglie. La politica ovviamente approfitta del “caso”, ormai mediatico, ma deve fare i conti con Babik…e viene scornata. Il finale non lo raccontiamo, ma è certo che il regista Philippe de Chauveron e il protagonista, il grande Christian Cavier, ce l’hanno messa tutta a divertirsi e a punzecchiare sinistra e destra con lo spiritello caustico francese, così da dividere al solito il Paese, e intanto sbancare il botteghino. Della serie, quando si fa cinema “civile” con l’arguzia della commedia.