Irlanda del Nord, Sinn Fèin primo partito tra Brexit e veti unionisti
Il 5 maggio 2022 è stato un giorno di elezioni in tutto il Regno Unito. In Inghilterra, Scozia e Galles si sono rinnovati gli organi amministrativi locali, ma il voto più significativo è stato quello in Irlanda del Nord, dove quasi 900 mila cittadini (il 63,61% degli aventi diritto) si sono recati alle urne per eleggere la Northern Ireland Assembly.
Tale ente legislativo, situato nei dintorni di Belfast e abitualmente noto come “Stormont”, in virtù del nome della tenuta che ospita i suoi edifici, ha una storia piuttosto articolata. Al termine della guerra d’indipendenza (1919-1921), l’isola irlandese fu infatti divisa in 2 Stati: lo “Stato libero”, divenuto nel 1949 una repubblica indipendente, e l’Irlanda del Nord, limitata alle 6 contee a maggioranza protestante dell’Ulster e soggetta a Londra.
Un primo Stormont, che era nominato mediante meccanismi elettorali scarsamente democratici, operò dal 1921 e si configurò come un bastione della supremazia degli unionisti filo-britannici e protestanti sulla comunità cattolica, influenzata dal nazionalismo irlandese e dal repubblicanesimo.
L’insorgere di un vasto movimento per i diritti civili dei cattolici alla fine degli anni ’60 determinò una drammatica recrudescenza delle violenze settarie e della repressione statale. Nel marzo 1972, il governo inglese decise così di sciogliere il Parlamento nordirlandese. Per tutta la durata dei Troubles, la guerra a bassa intensità (tra i 3 e i 4mila morti) che oppose l’esercito britannico e i gruppi armati lealisti alla guerriglia repubblicana dell’Irish Republican Army (IRA), il Paese fu dunque governato da Londra attraverso il Northern Ireland Office, nonostante alcuni fallimentari tentativi di restaurare la devoluzione.
Solo con gli Accordi di pace del Venerdì Santo del 1998, aprì i battenti l’attuale assemblea legislativa, che legifera su materie di politica interna. Il nuovo Stormont funziona in base al principio del power-sharing: è cioè indispensabile, per la nascita di un governo, che unionisti e nazionalisti partecipino a un esecutivo misto, guidato da un primo ministro e da un vice che siano espressione dei rispettivi schieramenti, con il ruolo di primo ministro riservato al partito più votato.
Dal 1998, si sono alternati governi inter-comunitari e lunghi commissariamenti da parte di Londra, come tra il 2002 e il 2007 e tra il 2017 e il 2020. Fino alle elezioni legislative del 2017, tuttavia, la carica di primo ministro era sempre spettata ai filo-britannici dell’Ulster Unionist Party (UUP) o del Democratic Unionist Party (DUP).
Proprio alla luce della secolare egemonia unionista, si può valutare meglio la portata dirompente delle elezioni della scorsa settimana: per la prima volta dal 1921 la formazione che ha conquistato più deputati appartiene allo schieramento nazionalista. Con il 29% delle prime preferenze e 27 seggi, il partito Sinn Féin (“noi stessi”), nato nel 1905 ed ex “braccio politico” dell’IRA, si è infatti affermato come la maggiore forza di Stormont, mentre il DUP ha guadagnato il 21,33% delle prime preferenze e 25 seggi.
La leader del Sinn Féin Michelle O’Neill è il volto principale di una vittoria che è giunta in una data centrale del calendario politico irlandese, in quanto proprio il 5 maggio ricorre l’anniversario della morte di Bobby Sands, il primo dei 10 detenuti repubblicani che persero la vita negli scioperi della fame del 1981.
Figlia di un militante dell’IRA e ragazza madre a 16 anni, O’Neill appartiene alla generazione che è entrata nel partito dopo la svolta del 1998 e ha raccolto l’eredità politica dei veterani della stagione della lotta armata.
L’attuale Sinn Féin è un’organizzazione diversa da quella dei decenni passati: lo storico obiettivo della repubblica socialista ha ceduto il passo a un più moderato socialismo democratico. La prospettiva della riunificazione irlandese rimane la stella polare dei repubblicani, tuttavia O’Neill ha incentrato la campagna elettorale su temi bread-and-butter, come la sanità, la disoccupazione e l’emergenza abitativa.
Molti osservatori hanno individuato in questo pragmatismo un elemento cruciale dell’affermazione del Sinn Féin, ma non mancano coloro che hanno ridimensionato il successo del partito. Graham Gudgin, ex consigliere speciale dell’ex primo ministro Trimble, ha ad esempio fatto notare sul Telegraph come, in generale, il voto unionista continui ad essere superiore, di circa l’1%, a quello nazionalista. L’inconsueto esito elettorale sarebbe dunque soprattutto il prodotto delle divisioni dei filo-britannici.
Negli ultimi anni, in effetti, l’unionismo sta vivendo una crisi dovuta alle conseguenze della Brexit. L’accordo di recesso del Regno Unito dall’UE del gennaio 2020 comprende, infatti, anche un protocollo relativo al contesto nordirlandese, che stabilisce il mantenimento de facto dell’Irlanda del Nord all’interno dell’unione doganale europea.
Il protocollo implementa quindi una sorta di confine commerciale interno al Regno Unito tra Belfast e Londra, scongiurando il ritorno a un hard border tra le 2 Irlande. Questo compromesso è stato raggiunto anche per evitare che la Brexit destabilizzasse la tenuta degli Accordi del 1998, ma gli unionisti hanno denunciato la definizione di una linea doganale divisoria come un tentativo surrettizio di arrivare al divorzio dall’Inghilterra.
L’ex primo ministro Paul Givan, del DUP, si è dimesso nel febbraio 2022 in protesta contro il protocollo, ma l’estrema destra unionista ha bocciato la condotta del suo partito, giudicata troppo prudente. Non sorprende, dunque, che a un rilevante calo del DUP (-6,8% rispetto al 2017), come pure del più moderato UUP (-1,7%), sia corrisposta la crescita dell’oltranzismo del Traditional Unionist Voice, che ha guadagnato il 7,63% delle prime preferenze ed è stato il partito che è aumentato di più in termini percentuali.
Pur considerando la dispersione elettorale dell’unionismo, al Sinn Féin va comunque riconosciuta la capacità di aver concentrato il voto nazionalista e progressista, in quanto le organizzazioni repubblicane dissidenti e marxiste non hanno riscosso successi significativi (solo l’anticapitalista People Before Profits ha ottenuto un seggio), mentre il Social Democratic and Labour Party, un tempo la prima forza tra i cattolici, ha subito una contrazione dei consensi (-2,8%).
Un ulteriore elemento di novità è rappresentato dall’ascesa dell’Alliance Party, liberale ed europeista, alla posizione di terzo partito (quasi il 14% delle prime preferenze e 17 seggi). Il netto progresso di una formazione che, provenendo dall’unionismo moderato, vuole accreditarsi come inter-comunitaria, sembra sparigliare le carte della politica locale.
A Stormont, gli unionisti tradizionali si trovano dunque in minoranza rispetto alla somma di nazionalisti e non allineati. La carica di primo ministro spetterebbe a Michelle O’Neill, ma il DUP ha già chiarito che non formerà un governo di coalizione finché rimarrà in vigore l’attuale protocollo.
Con tali premesse, la strada per la nascita di un nuovo esecutivo è tutta in salita, anche perché le acque dell’unionismo non sono agitate soltanto dal post-Brexit, ma anche dalla possibilità di più profondi cambiamenti sociali.
I sondaggi attuali segnalano che, in un eventuale referendum sullo status dell’Irlanda del Nord, la maggioranza dei votanti sarebbe tuttora schierata per la permanenza nel Regno Unito, ma le fasce giovanili sembrano le più propense a scegliere la riunificazione con Dublino.
Inoltre, lo scenario di un tendenziale sorpasso, demografico più che elettorale, della comunità “cattolica” su quella “protestante” non è più così improbabile, e potrebbe iniziare ad emergere già dai dati, di prossima uscita, del censimento del 2021. Si aggiunga che, nel 2020, Sinn Fèin è diventato il primo partito anche nella Repubblica d’Irlanda.
La prospettiva, per quanto lontana, di un’isola unita e governata dai repubblicani risulta indigeribile per gli unionisti, epigoni di una tradizione politica che si fonda proprio sulla lealtà alla Corona britannica. Lo stallo istituzionale che si profila a Belfast rischia di essere aggravato dalle iniziative del governo conservatore di Londra, irritato dalla nuova composizione di Stormont e dall’indipendentismo dei nazionalisti scozzesi, che pone seri problemi alla coesione territoriale del Regno Unito.
Secondo il Guardian, il Segretario di Stato per gli Affari Esteri Liz Truss avrebbe già predisposto una legge per eliminare il confine doganale con Belfast. Il paventato provvedimento rappresenterebbe una violazione del protocollo nordirlandese e ha suscitato le immediate reazioni dell’UE. La stessa Truss ha ribadito che la revisione, anche unilaterale, del protocollo potrebbe configurarsi come una vitale questione di sicurezza interna.
D’altra parte, non è escluso che un atto del genere possa originare conseguenze impreviste non solo per l’Irlanda del Nord, dove la brace delle tensioni continua ad ardere sotto la cenere, ma per lo stesso continente europeo, già afflitto dalla guerra in Ucraina.
I repubblicani irlandesi, insomma, avranno pure vinto le elezioni, ma il sentiero che conduce alla Repubblica rimane stretto e pieno di insidie. Per il momento, se i partiti non riuscissero a formare un esecutivo entro 24 settimane, l’orizzonte obbligato sarebbe quello di un nuovo e incerto appuntamento elettorale.
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