Iraq, un popolo in ostaggio
Nella notte tra il 7 e l’8 gennaio 2020 decine di missili provenienti dall’Iran hanno colpito le basi militari di Ayn al-Asad e di Erbil in Iraq. È cominciata così la prima fase dell’ operazione “Soleimani Martire” annunciata come risposta all’assassinio del generale iraniano. Sembra l’inizio della reazione a catena dagli esiti incerti, da tutti temuta.
Anche per Giandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa, non certamente un pacifista, «l’Italia dovrebbe essere fra i primi Paesi a ritirarsi dall’Iraq per non trovarsi coinvolta in un conflitto che americani e iraniani combatteranno sul territorio iracheno, il che non rientra nel mandato del nostro Parlamento».
Ma nell’Iraq martoriato non ci sono solo militari e contractors. Il nostro Paese ha saputo generare realtà del tutto originali nel campo della solidarietà internazionale come l’organizzazione non-governativa “Un ponte per…” nata originariamente nel 1991 con il nome di “Un Ponte per Baghdad”, subito dopo la fine dei bombardamenti sull’Iraq, con lo scopo di promuovere iniziative di solidarietà per la popolazione irachena colpita dalla guerra.
Ad aprile 2019 avevamo già intervistato Alfio Nicotra, copresidente di “Un Ponte per…”, di ritorno da una conferenza internazionale promossa, in quella nazione, da una sorprendente rete delle organizzazioni della società civile irachena.
A Nicotra abbiamo chiesto: E ora? Cosa cambia nel clima di tensione, aggravato dall’omicidio del generale iraniano Soleimani?
L’azione militare all’aeroporto internazionale di Baghdad – che ha portato all’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani e di altre sette persone – è un atto irresponsabile tanto più grave perché realizzato da un Paese che è membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Si tratta di un atto, la rappresaglia e l’omicidio mirato, considerato dal diritto internazionale come un crimine di guerra. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti : l’intero Medio Oriente rischia di essere travolto dalla contrapposizione militare tra Iran e Usa.
Cosa vuol dire per voi come Ong presente non solo in Iraq, ma anche in Libano, Giordania e Siria?
Per noi che siamo operatori di pace in quei territori tutto si complica perché rischiamo di diventare target dell’ondata di odio e rancore antioccidentale che l’omicidio di Soleimani sta provocando. Le prime vittime di questo clima sono d’altronde , i ragazzi e le ragazze irachene che da ottobre hanno occupato le piazze di tutto l’Iraq. Oltre 500 di loro sono morti e quasi 20.000 sono rimasti feriti sotto il fuoco della polizia e delle milizie filo iraniane. Hanno resistito alla tentazione di rispondere colpo su colpo e hanno conquistato, giorno dopo giorno, con una paziente mobilitazione nonviolenta, un sempre più vasto consenso popolare. Il primo ministro Abdel Mahdi, amico di Teheran ma non inviso a Washington, si è dovuto dimettere in dicembre. Ecco tutto questo, i missili di Trump, rischiano di spazzare via.
Avete costruito spazi di partecipazione con realtà della società civile irachena praticamente sconosciute dalla nostra prevalente informazione. Come si possono muovere tali formazioni sociali, ad esempio i sindacati, in un clima di guerra?
La guerra uccide la parola dei popoli, è nemica mortale di chi vuole cambiare con la lotta la società. Con la guerra si gonfiano le vele dei nazionalismi e di quei settarismi religiosi che le mobilitazioni popolare volevano superare. È infatti chiaro che, come è già successo in Siria, il confronto, regionale e globale, in corso in Medio Oriente tenderà ad emarginare la richiesta di fine del sistema instaurato dall’occupazione statunitense e dell’interferenza iraniana nella vita politica irachena. La questione sociale, per esempio sul destino dei dividendi dei profitti del petrolio, si stava affermando in Iraq con la richiesta di salari più giusti e di un sistema di welfare state universale e non più dettato dall’appartenenza etnica e religiosa. Se gli attivisti sociali , ecologisti, dei diritti umani e di quelli delle donne potranno in questa situazione proseguire nel loro impegno non c’è dato sapere. Lo spero con tutto il cuore ma i venti di guerra che spirano sempre più forti inducono al pessimismo.
Quale ruolo possono giocare l’Italia e l’Europa?
Il primo gesto significativo sarebbe una dissociazione forte e chiara dalla politica di Trump. La Casa Bianca ha deciso di abbandonare la lotta a Daesh (Isis) come dimostra la scelta di ritirarsi dalla Siria in accordo con l’aggressione di Erdogan (salvo mantenere il controllo dei pozzi di petrolio) e con l’assassinio in terra irachena di Souleimani. Questo significa che il terrorismo jihadista ha oggi una occasione straordinaria per rialzare la testa. L’Europa può accettare questo? Analogamente la politica di Trump punta a far saltare l’accordo sul nucleare con l’Iran. Si tratta di una politica avventurista che punta ad una nuova corsa al riarmo nucleare e non solo.
Sembra una reazione a catena inevitabile. Quali strumenti sono realisticamente praticabili dalle istituzioni europee?
Se la Ue vuole avere un ruolo e non dissolversi definitamente deve essere in grado di dare delle garanzie all’Iran che quell’accordo sarà rispettato. Gli interessi del governo Usa (non del popolo Usa che invece ha tutto l’interesse alla pace) non sono conciliabili con quelli europei. Il Presidente francese Macron ha detto recentemente che “la Nato è in stato di morte cerebrale”. Allora iniziare a porsi il problema di un suo superamento mi pare indispensabile se vogliamo che l’Unione Europea abbia un ruolo di pace attivo nello scacchiere internazionale.