Iraq, un Paese tenace
Ancora una volta l’Iraq si è mostrato un paese tenace. L’occasione sono state le elezioni del 10 ottobre scorso, anticipate (di circa 8 mesi) anche per rispondere alle forti proteste popolari, soprattutto giovanili, di 2 anni fa, in era pre-pandemica, che chiedevano a gran voce lavoro, lotta contro la corruzione e una radicale riforma del sistema politico ancorato alla muhassasa, la logica spartitoria confessionale retaggio della fase post Saddam Hussein. Per gli attacchi ai dimostranti da parte della polizia e per gli scontri con milizie filo-iraniane, ci furono oltre 500 morti e migliaia di feriti, finché anche per l’intervento del grande leader spirituale sciita di Najaf, al Sistani, il premier Abdul Mahdi a dicembre 2019 dovette rassegnare le dimissioni, che vennero accettate dal Parlamento.
Da maggio 2020 si è insediato il nuovo premier Mustafa al Kadhimi, un giornalista esiliato al tempo del regime e dal 2016 al 2020 direttore dei servizi segreti, che ha assunto un atteggiamento molto più pragmatico del suo predecessore adoperandosi con grande impegno e tenacia per affrontare gli immensi problemi che assillano il Paese: Covid, terrorismo Isis, presenza militare Usa, milizie filo-iraniane, corruzione, disoccupazione, carenze energetiche e idriche, per non citare che i principali. E per garantire all’appuntamento elettorale dei giorni scorsi uno svolgimento pacifico e corretto. Tra l’altro controllato da una nutrita schiera di osservatori internazionali (100 forniti dall’Onu e 130 dall’Ue).
I risultati, non ancora ufficiali, della tornata elettorale per il rinnovo del Parlamento (329 seggi) hanno visto la netta affermazione della coalizione Sairoon, guidata dal Movimento sadrista (sciita) di Muqtada al Sadr (che passa da 54 a 73-75 deputati). Segue la coalizione sunnita Taqaddum (37 seggi) e al terzo posto una coalizione di sciiti moderati che fa capo all’ex premier Nuri al Maliki. A breve distanza il Partito democratico del Kurdistan iracheno (Kdp). Gli altri due dati da non sottovalutare sono il forte astensionismo (ha votato uno scarso 41%, ma si temeva di peggio) e la netta sconfitta, quasi il tracollo della coalizione Fatah che raccoglie le milizie filo-iraniane (da 48 a 16 deputati, forse anche meno). Il leader di Fatah, Hadi al Amiri, ha immediatamente negato i risultati, contestando il governo e accusando gli avversari di brogli. In ogni caso, a causa di una legge elettorale che scoraggia le maggioranze fatte da un solo partito, sarà necessario un accordo fra almeno 5 o 6 formazioni per costituire il nuovo governo.
Il leader del Movimento sadrista è il chierico sciita (ma non è un ayatollah) Muqtada al Sadr, un dinamico 48enne, figlio del venerato grande ayatollah Mohammad Sadeq Al Sadr, ucciso dai sicari di Saddam Hussein nel 1999 per il suo sostegno agli sciiti perseguitati dal regime. Muqtada al Sadr ha iniziato il suo impegno politico nel 2003 fondando l’Esercito del Mahdi, una formazione clandestina antiamericana (che raccoglieva consensi fra molti sciiti iraqeni), bloccata dal governo nel 2008 e poi disciolta nel 2014 dallo stesso Muqtada al Sadr, che fece una scelta moderata aperta al dialogo con altri partiti. Dal 2018, quando la coalizione Sairoon è entrata in Parlamento, il leader sadrista ha preso le distanze anche da Teheran ed è diventato sempre più un leader nazionalista aperto al dialogo con le altre forze non schierate con Teheran.
Il premier al Kadhimi non è sadrista, ma il suo pragmatismo non dispiace a Moqtada al Sadr, tanto che molti osservatori ritengono che resterà a capo del governo. Tra le molte iniziative interessanti di questo ultimo anno e mezzo (da quando al Kadhimi è diventato premier) va certamente annoverata a fine agosto la Conferenza per la cooperazione e il partenariato, convocata a Baghdad, che ha visto seduti intorno allo stesso tavolo rappresentanti di Arabia saudita, Egitto, Emirati, Giordania, Kuwait e Francia, ma anche (e non era scontato) di Iran, Qatar e Turchia. E come osservatori delegazioni del G20, dell’Ue e dell’Onu. Al Kadhimi ha inoltre promosso e avviato una riapertura diplomatica del dialogo fra i due grandi nemici: Riyad e Teheran, Arabia saudita e Iran, che non si parlavano dal 2016.
In campo economico-energetico è significativo, fra l’altro, un accordo con la francese Total per il recupero del gas prodotto in alcuni impianti estrattivi di Bassora, che finora veniva bruciato non potendolo utilizzare per mancanza di infrastrutture. In questo modo il Paese potrà ridurre le importazioni di gas iraniano sostituendole con il recupero del gas locale.