Iraq: occidentale o sciita?
Ricostruire la pace. Dopo il conflitto armato in Iraq e la caduta del regime di Saddam Hussein, tutti non sembrano desiderare altro. Eppure, l’impresa nella terra del Tigri e dell’Eufrate è risultata complessa sin dai primi passi. C’è da avviare in tutta fretta una ricostruzione materiale dopo i bombardamenti e una ricostruzione istituzionale dopo la lunga dittatura. Per di più, l’Iraq si caratterizza per una pronunciata diversità etnica e religiosa, come evidenziamo a parte. Le prospettive restano incerte e le soluzioni più facili – un protettorato Usa o, per contro, un governo sciita vicino a quello iraniano – sono le meno accreditate, perché le più temute. Anche un Iraq diviso in tre, come sotto l’impero ottomano, è visto con la massima preoccupazione dalle grandi potenze, perché la suddivisione aumenterebbe l’influenza nell’area di Arabia Saudita e Iran, attualmente non proprio filooccidentali. Notizie di prima mano su cosa si pensi in Iraq, le ha mons. Philip Najim, nato a Baghdad, rappresentante della Chiesa caldea presso il Vaticano, appena rientrato dal suo paese. Nella popolazione c’è la coscienza di un’identità irachena oppure prevale adesso la dimensione etnica o quella religiosa? “La divisione tra le etnie si sta adesso ingigantendo in modo artificioso. Per noi iracheni non ha mai costituito un problema. Il senso della nazione è vissuto dal popolo iracheno con tutta la sua eredità culturale ed archeologica. Quindi, curdi, arabi, assiri, oppure sunniti, sciiti, caldei, tutti sono fieri di affermare: “Io sono figlio della Mesopotamia”. Siamo pure nella terra di due città sante, Karbala e Najaf. Anch’io, come cristiano, sono orgoglioso di questa eredità sciita presente nel nostro paese. Questa era la convivenza prima della guerra. E questo si vede oggi: siamo senza governo, senza legge, eppure nessuna violenza dilagante”. Ed invece veniva data per certa. Da qui l’ipotesi di una divisione del paese in tre. “La gente ha continuato a lavorare insieme per poter creare una vita normale. Chi temeva una guerra civile dopo la caduta del regime ha visto che non c’è stata, e non ci sarà mai. Il senso di appartenenza al paese ha riunito tutta la popolazione con le sue diversità. Perciò, nessuna politica internazionale può dividere oggi la popolazione”. I suoi connazionali aspettano solo la partenza degli americani? “La faccenda seria è che gli Usa si guadagnino la fiducia del popolo iracheno, altrimenti non si riuscirà a dialogare. Non servono i carri armati nelle università. Sono sufficienti nelle strade. L’università va rispettata. “No, gli americani non devono lasciare il paese adesso. Arrecherebbero un gravissimo danno. Sono vincolati dal diritto internazionale, perché loro sono entrati e hanno distrutto il paese e devono aiutare il popolo, provvedere almeno alle necessità di base: acqua, elettricità, telefono, tivù. La tivù è molto importante, perché al momento ricevono solo la tivù iraniana, e quella proprio non aiuta”. Difficile far sentire che sono stati liberati? “Al momento non possono dire di essere stati liberati. Gli americani devono essere vicini ad ogni iracheno, conquistando la fiducia, con un rapporto basato sul rispetto, senza uccidere i civili se qualche volta manifestano, altrimenti rischiano di fare una guerra direttamente al popolo iracheno “. Troppi errori iniziali? “Come sono stati messi due carri armati davanti al ministero del petrolio, potevano metterne uno davanti al museo archeologico, che custodiva l’identità e la storia del popolo iracheno. Avrebbero guadagnato subito la fiducia della popolazione. Gli iracheni sono molto semplici, orgogliosi sì, ma alla mano. Adesso, nella delicata fase di consultazioni per il futuro politico del paese, è fondamentale rispettare le scelte dei rappresentanti delle varie componenti del popolo iracheno in modo da evitare qualsiasi conflitto tra etnie e scongiurare che si radichi l’impressione di un paese invaso più che liberato. Quindi, assicurare la libertà di poter scegliere e poi rispettare le scelte compiute: solo così si potrà realizzare il concetto di democrazia”. In molte città allo sbando, gli imam hanno assunto di fatto un ruolo di rilevanza civile. Il nuovo assetto istituzionale sarà condizionato fortemente dalla gerarchia musulmana? “Non credo. Gli imam si sono comportati in maniera molto normale. In quelle città erano rimasti solo gli imam come autorità e hanno dato il buon esempio, ricordando i fondamenti del diritto, che vietano furti e saccheggi. Così, nelle moschee sono stati riportati tanti oggetti sottratti. Anche i cristiani hanno fatto cose simili. A Bassora, l’unica farmacia aperta durante la guerra era quella della chiesa: il vescovo e un sacerdote hanno distribuito le medicine gratis a tutti, senza distinzioni di fede. Un sacerdote, con il camion, è andato a portare acqua e cibo nelle case a chi non si poteva muovere, cristiani o musulmani che fossero”. Vede rischi di una repubblica teocratica ad opera degli sciiti? “Non li vedo. L’Iraq è stato sempre un paese laico, dove c’era una moschea c’era anche una chiesa. E sulla separazione tra stato e religione si è fondato qualsiasi governo iracheno, anche prima di Saddam. La religione ufficiale dello stato è l’islam, ma nella costituzione sono salvaguardati i diritti anche della altre religioni. Se si arriva ad un governo democratico, non ci saranno pericoli. Non credo possibile vedere applicata una forma di governo come quello iraniano, basato sul Corano. Non lo permette la natura stessa della popolazione irachena”. Nessun pericolo, allora, per i cristiani di passare da un periodo di tolleranza alle… catacombe? “Il dialogo e la collaborazione tra cristiani e musulmani in Iraq possono essere presi ad esempio per l’intera regione mediorientale e oltre. La guerra è finita già da qualche settimana, ma non abbiamo notizia di un solo attrito tra un musulmano e un cristiano. L’iracheno è per natura tollerante, ma lì da sempre cristiani e musulmani vivono insieme. C’è un cammino comune compiuto, il dialogo e il rispetto ci sono sempre stati”. Gli iracheni possono diventare un modello Costituiscono la maggioranza della popolazione irachena, abitano i territori più ricchi di giacimenti petroliferi, sono stati perseguitati e uccisi da Saddam, confinano con i correligionari iraniani che guidano il paese. C’è di che temere, riguardo agli sciiti. Non così per il basco padre Justo Lacunza-Balda, missionario dei padri bianchi, rettore del Pontificio istituto di studi arabi e d’islamistica, autorevole studioso dei movimenti islamici internazionali. Secondo lei, quanto e in che modo gli sciiti influenzeranno il futuro assetto politico e istituzionale, ma anche religioso, dell’Iraq? “C’è un collante religioso e culturale tra gli sciiti iracheni e iraniani. Questo denominatore comune è la dottrina che pone Ali, genero di Maometto, come elemento essenziale nella successione dopo il profeta Maometto. Le tombe di Ali, a Najaf, e quella di Hussein, a Kerbala, entrambe in territorio iracheno, hanno contribuito ad un collegamento tra sciiti iracheni e sciiti iraniani. “Ma non va dimenticata una diversità, quella etnica. Gli sciiti dell’Iraq sono arabi, gli sciiti dell’Iran sono iraniani, appartengono ai popoli indoeuropei, dunque non arabi. E questa differenza è sostanziale “. Nel complesso non guarderanno all’Iran come modello, ma c’è chi teme una deriva fondamentalista. “Trovo normalissimo che, dopo trent’anni di un regime dittatoriale, ci sia voglia, come si è visto, di manifestare pubblicamente. È uno sfogo liberatorio, ma sono convinto che non incendierà l’intero paese. Ci sono riflessi politici inevitabili in questo fase, ma attenzione a non vedere gli sciiti solo come un pericolo. Significherebbe non aver capito la questione e, dunque, non saperla gestire. Questo, sì, sarebbe preoccupante”. In occidente c’è scetticismo sulla cultura democratica degli iracheni. Condivide la preoccupazione? “I rappresentanti che si stanno incontrando non sono abituati alla logica del confronto. È ovvio che ci siano problemi iniziali, che si arriva al diverbio, ma poi si impara. Questo avviene perché per decenni sono mancati spazi e modi per esprimersi liberamente. Perciò, più che un autoritarismo militare, serve un’autorità collegiale, democratica, in cui tutti abbiano voce nel grande consiglio per poter affrontare i problemi seri. La prima cosa da fare in democrazia è ascoltare. Gli Usa non devono perciò arrivare con formule democratiche precostituite, altrimenti pregiudicano la loro presenza nel paese”. Quali i primi doverosi passi degli americani in vista della democrazia? “La gente crederà alle parole sulla democrazia, sui diritti umani, sulla libertà, se vedrà in atto la ricostruzione. È urgente rimettere in funzione ospedali e scuole, ridare a tutti condizioni normali di vita”. In base alla sua storia e alla sua cultura, quale apporto peculiare può dare il popolo iracheno alla comunità internazionale, una volta riconquistata l’autonomia di governo nazionale? “Con le varie componenti etniche e religiose, l’Iraq può diventare un modello di convivenza pacifica nella ricchezza delle diversità interne. E avrebbe notevoli effetti, perché tutto quello che succede in Medio Oriente ha grande risonanza nel mondo, certamente a motivo del filo conduttore delle grandi religioni. “Molte volte penso che, in certi ambienti, faccia paura un Medio Oriente in pace. I grandi della Terra, a livello politico, ma anche economico, finanziario, intellettuale, sanno che possono impadronirsi delle situazioni fin quando c’è lotta. Dividi e domina: sempre vero. Per questo, l’unità dei cristiani fa paura; e così pure l’unità dei popoli arabi, l’unità delle popolazioni africane, l’unità delle nazioni europee. L’unità non è una cosa facile, pone delle sfide. Ma se molte volte non si arriva all’unità è perché i processi democratici falliscono o le strade intraprese sono sbagliate. Non è il caso però di mollare. E l’Iraq può essere un incoraggiante laboratorio”.