Iran: un bacio a Shiraz nel novembre di sangue
Una foto che esprime con forza l’Iran di questi giorni, di un altro novembre di sangue (bloody aban) dopo quello terribile del 2019 (1.500 morti): è la foto di un ragazzo e una ragazza di Shiraz che si baciano in mezzo al traffico, mentre la città insorge contro il regime. Un bacio rubato da uno sconosciuto fotografo e postata sui social il 15 novembre scorso. Un gesto d’amore che è anche paradossalmente una sfida temeraria alle regole imposte daibasij – la polizia morale dei mullah – per soffocare la libertà e la vita di uno dei più antichi popoli della storia.
Perché Shiraz non è solo una città (2 milioni di abitanti) dell’Iran di oggi, ma la porta di Persepoli, la capitale fondata nel VI secolo a.C. dagli Achemenidi, e la città dove si trova la tomba del sommo poeta Hafez, vissuto nel XIV secolo, e amatissimo ancora oggi per i suoi versi che celebrano l’amore e deridono arguti l’ipocrisia dei guardiani della morale.
I basij e le guardie della rivoluzione hanno scatenato in tutto il Paese una repressione durissima e feroce: basta poco per massacrare di botte i “ribelli”, come a Iranshahr, mille km a est di Shiraz, dove una quattordicenne sarebbe stata picchiata a morte dalla polizia per una foto di Khomeini trovata strappata fra le pagine di un suo libro di scuola. Oppure a Teheran, dove Nasrin Gadheri, una 35enne curdo-iraniana, durante una manifestazione sarebbe stata uccisa a manganellate dalla polizia, che ha poi dichiarato che era morta per una patologia che la affliggeva da tempo.
Se ad innescare le proteste sono state infatti soprattutto le donne, a due mesi di distanza dalla morte di Mahsa Amini, a metà settembre, le rivolte contro il regime hanno ormai coinvolto università, intellettuali e un’ampia parte della società civile di tutto il Paese. E sono soprattutto i giovani a non volerne più sapere del regime degli ayatollah. Alle proteste e poi alle rivolte, il regime ha risposto stringendo ancora di più le maglie della repressione. La paura che possacrollare l’intero sistema è molto forte negli apparati: per chi ha sostenuto il regime in questi anni sarebbe una catastrofe. Così si è mobilitato anche il Majles, l’Assemblea consultiva islamica, una sorta di Parlamento rinnovato due anni fa escludendo l’80% dei candidati riformisti, che l’8 novembre ha votato stragrande a maggioranza una richiesta (227 favorevoli su 290 deputati) di applicare la pena capitale ai ribelli dichiarati moharebin (nemici di Dio): «Come rappresentati di questa nazione chiediamo alle autorità e all’apparato giudiziario di affrontare questi nemici di Dio, che hanno attaccato vite umane e proprietà, e meritano una condanna e una vendetta divina», ha tuonato in aula il capo della magistratura Mohseni-Ejei, fino all’anno scorso vice di Ebrahim Raisi, prima che venisse “eletto” presidente della Repubblica islamica.
Secondo fonti di agenzia le condanne sono iniziate subito: una persona è stata condannata per aver aggredito alcuni agenti di polizia con la sua auto, uccidendone uno; un’altra per aver accoltellato un agente di sicurezza e una terza per aver bloccato il traffico terrorizzando i passanti. Si ha notizia attraverso il sito della magistratura iraniana, Mizan, della condanna a morte, emessa dal tribunale di Teheran domenica 13 novembre, di una persona accusata di aver “incendiato un edificio governativo, per disturbo dell’ordine pubblico e per complotto finalizzato a commettere un crimine contro la sicurezza nazionale”.
Mahmood Amiry-Moghaddam, direttore della ong Iran Human Rights (con sede a Oslo, in Norvegia), ha detto a France-Presse che le persone arrestate e incriminate durante le proteste vengono interrogate senza avvocati e subiscono torture per indurle a confessare reati che spesso non hanno commesso.
Durante gli scontri di questi due mesi, i manifestanti uccisi sarebbero, secondo alcune agenzie, fra 350 e 500.E per gli arrestati si parla di 16-19 mila, con 15 accusati di reati che prevedono la pena di morte.
Secondo il sito della resistenza organizzata dei mujahedin (Mek), le proteste sarebbero ormai estese a 60 città e 40 università. Una sessantina di bazar e diverse corporazioni di negozianti in tutto l’Iran avrebbero scioperato nei giorni scorsi (15-18 novembre) per protestare contro la repressione.
Il sociologo iraniano Farhad Khosrokhavar, direttore a Parigi dell’Ehess, commenta così la situazione: «Questo sistema ha fallito ovunque: nell’ecologia, in termini di sviluppo del paese, nel suo rifiuto della dignità femminile e maschile, nell’incapacità di stabilire un rapporto pacifico con il resto del mondo, e in termini di giustizia sociale. È diventato lo stato della repressione generalizzata, che non esita ad uccidere i suoi cittadini»
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