Iran tra democrazia e diplomazia
Qualcosa si è rotto nel Paese dopo la rivolta dei sostenitori di Moussavi e la violenta repressione della polizia.
Due le verità che emergono dal drammatico esito delle elezioni iraniane. In primo luogo, l’Iran non sarà più come prima. Per quanto si trattasse di un’oligarchia o, meglio, di una democrazia sotto tutela, la forma di governo in Iran non era qualificabile né come regime né come dittatura. Ora non è più così e la clericocrazia di Teheran si è trasformata in una forma di autoritarismo politico-militare.
Sinora il sistema politico a Teheran si fondava su una auto-proclamata “doppia legittimità”: da una parte, l’autorità religiosa della guida suprema, che si presentava come garanzia di unità nazionale della Repubblica islamica, ultima istanza del potere e punto di riferimento più o meno imparziale; dall’altra, il presidente poteva vantare, in quanto autorità politica, l’investitura popolare, sia pure ottenuta attraverso elezioni non soggette a controlli esterni e quindi non completamente libere (basti pensare che, nel caso delle elezioni parlamentari, si possono presentare solo candidati previamente “autorizzati”).
Entrambi questi riferimenti – autorità religiosa da una parte e potere politico dall’altra – sono ora sostanzialmente venuti meno. La guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, nell’avallare un risultato elettorale che quasi tutti gli analisti – soprattutto iraniani – giudicano palesemente, maldestramente e massicciamente truccato, ha fatto una precisa scelta di campo e non può più presentarsi come il custode della “comune” Repubblica islamica, al di sopra delle parti quindi. Anche il presunto vincitore Ahmadinejad (a lui si applica per davvero quello che per scherzo si sussurrava dopo la controversa elezione di George Bush nel primo mandato, e cioè che fosse «il più ineletto dei presidenti») esce – per dire il meno – azzoppato da questa triste e per molti versi tragica vicenda: al più può essere ora considerato il capo di una fazione (peraltro pesantemente armata), non certo un presidente dotato del sostegno della maggioranza del Paese.
Inoltre le palesi e gravissime violazioni dei diritti umani fondamentali, perpetrate dalla milizia dei Basiji contro manifestanti inermi, trasforma una parte della classe dirigente iraniana in una minaccia per lo stesso popolo iraniano. Se anche per ipotesi remota le elezioni presidenziali iraniane fossero state regolari, rimarrebbe il fatto che i miliziani hanno attaccato la folla; basterebbe questo a dimostrare che a trent’anni dalla rivoluzione islamica è avvenuta una mutazione strutturale nel rapporto tra società e istituzioni, che cambia in peggio e forse per sempre il delicato e precario equilibrio che aveva sinora sostanzialmente tenuto.
A tutto questo va aggiunto che mutano di conseguenza anche i termini del rapporto di Teheran con la comunità internazionale. Sarà più difficile per tutti, e in primo luogo per l’amministrazione Obama, far finta di nulla e proseguire sulla strada del dialogo. I segnali che provengono da Teheran, che utilizza la trita retorica del presunto complotto internazionale per giustificare una repressione sanguinosa e senza precedenti nella storia della Repubblica islamica, sono tutt’altro che incoraggianti.
Politica interna e politica estera sono sempre di più facce di una stessa medaglia. Questo vale per l’Iran, ma vale anche – in termini ovviamente diversi – per Obama, sotto pressione da parte di un Congresso e di un’opinione pubblica giustamente indignati. Tuttavia non bisogna dimenticare che l’Iran persegue un programma nucleare dai contorni niente affatto chiari, e capire quali siano le reali intenzioni dei capi religiosi su questo punto rimane un tema prioritario per la sicurezza di tutta l’area e per gli equilibri mondiali.
Ancora una volta, il problema è riuscire a bilanciare, senza ovviamente mai transigere sui fondamentali princìpi che reggono la stessa giustificazione etica della politica, le ragioni della diplomazia con quelle della democrazia.
Non è più tempo di evocare la metafora mitologica proposta da un politologo americano, e cioè da una parte Marte (la forza militare), dall’altra Venere (il dialogo). Se volessimo insistere sulle immagini mitologiche, dovremmo forse dire che ora il riferimento è Minerva, la saggezza. O meglio, la capacità di cogliere tutte le residue opportunità ancora aperte per puntare alla pace, ma con voce ferma e senza compromessi al ribasso dettati dalla “realpolitik”.