Io sono prete se sono in relazione

La storia di Claudio Cavallo sacerdote.
Sacerdoti oggi

«Avevo dodici anni, quando per la prima volta ebbi la sensazione di essermi incontrato con Dio e con il mistero del suo Amore. Non ricordo più nulla, ma quella luce non mi ha più lasciato. Fu alla scuola di quella Luce che la mia vita crebbe con un sacco di esperienze indimenticabili durante gli anni delle scuole medie e del liceo. In fondo al cuore una certezza: la gioia non si compra al mercato, occorre guadagnarsela e tuttavia essa mi accompagna ovunque io mi diriga.

È in questa scia che ho potuto scegliere la mia vocazione, accompagnato da tante persone che senza mai forzare il passo mi hanno seguito. Al termine dei 14 anni di seminario mi viene data la possibilità di passare un anno a Roma prima del diaconato. Frequento alcuni corsi di teologia morale e nel frattempo ho la fortuna di vivere insieme ad una dozzina di altri giovani di varie nazioni europee e dei continenti.

È una vita di famiglia dove dobbiamo farci tutto. Forse perché sono uno dei pochi italiani, debbo occuparmi in particolare della cucina e della redazione di una rivista internazionale per seminaristi che insieme ad articoli di carattere teologico-pastorale si allestisce a vetrina raccogliendo capi pregiati da ogni angolo della terra: esperienze e testimonianze di seminaristi che credono alla fratellanza universale e con semplicità vivono il Vangelo. Il tempo corre veloce e mi ritrovo prete».

 

Don Claudio Cavallo ci racconta la sua esperienza, fresca, entusiasta, di ampio respiro. Impegni pastorali nella sua Diocesi a Cuneo, lunga parentesi in Africa, e poi nuovamente in Diocesi, è da pochi mesi parroco a San Dalmazzo in Borgo, periferia di Cuneo. 

 

Claudio cosa significa per te oggi essere sacerdote?

«Lo leggo in due dimensioni; quella personale, che per me resta un momento centrale per capire il senso di una scelta come quella del sacerdozio, una pagina del Vangelo di fronte alla quale mi vedo inadeguato e nel contempo che mi attrae, oggi come allora. Se dovesse esistere l’elisir dell’eterna giovinezza del prete è da questa scena che potrebbe attingere: il segreto è qui!

C’è, poi, una dimensione comunitaria. C’è chi dice che il volto della parrocchia dovrebbe essere come il roveto ardente che porta a Dio. È qui che – a mio parere – si gioca molto dell’essere prete oggi. Non è più possibile pensare il sacerdozio su una scala solitaria e verticale, cosa che tra l’altro ha generato figure straordinarie di preti tutti dediti alla cura delle anime.

Il senso dell’essere prete oggi lo puoi trovare se sei una persona che sta in mezzo alla comunità come colui che serve alla comunione. E non bastano i ritiri annuali o gli incontri zonali e neppure le cene di cortesia tra preti per creare la famiglia. Occorre avere cura dell’altro, prendersi tempo ed essere famiglia.

In questa prospettiva il sacerdote potrà essere strumento di comunione perché impara ogni giorno la comunione vivendo rapporti reali, storici con tutti».

 

Come è maturato in te il desiderio di questa disponibilità a servire la chiesa non solo nella tua Diocesi ma dove Dio te lo chiede?

«Vent’anni or sono, alla vigilia della mia ordinazione, scrissi al mio vescovo una lettera nella quale davo la mia disponibilità ad andare ovunque ce ne fosse stato bisogno. Fu così che quando nel 1999 mi chiesero di andare a sostituire un sacerdote della mia stessa diocesi che da 20 anni si trovava a Fontem nel sud ovest del Camerun, non esitai neppure un istante.

Ci fu un episodio di quel periodo che amo ricordare: era la festa dell’Assunta e tornavo dai campi estivi coi ragazzi e i giovani in una delle splendide valli della nostra provincia di Cuneo. Secondo gli accordi presi col vescovo avrei dovuto comunicare la partenza per l’Africa alla mia famiglia e alla gente della parrocchia in cui lavoravo.

Proprio quel giorno, inaspettatamente, mio padre venne ricoverato in ospedale per accertamenti. Il responso era chiaro: tumore ai polmoni. Momenti di sospensione e ripensamento; dopo alcuni giorni comunicai a mio padre il mio spostamento. Non ebbe alcun dubbio: “È la vita che hai scelto, sono felice per te!”.

Vista la situazione incerta, il vescovo mi suggerì di accantonare momentaneamente l’idea. Mi fidai e continuai a lavorare in parrocchia fin quando, il 20 settembre, all’improvviso papà, colpito da un infarto, ci lasciò senza disturbare. Il giorno prima, avevamo ancora giocato a carte insieme, una delle sue passioni. Avevo avuto la sua benedizione e così partii per l’Africa».

 

Cosa ti porti di questo tempo in Africa?

«Una ricchezza infinita di rapporti, di vita condivisa impossibile da raccontare. Tuttavia vorrei ricordare qui una parola a me cara: fedeltà. È un’esperienza che mi ha sempre accompagnato in questi anni. Per amare una persona occorre esserle fedele, per imparare la fedeltà occorre riprendere il passo ogni giorno.

Rubando un’espressione a Chiara Lubich potrei dire: “Dio sa colorire d’aurora ogni mesto mattino d’ogni povero vivente. E tu vedi. Vedi perché la Luce illumina. E rispondi al suo richiamo, fedele, dapprima poco, poi sempre più, alla sua voce. E s’aprono davanti a te mete impensate, e lasci dietro di te ricami di cielo”».

 

L’anno  sacerdotale appena concluso cosa ha significato per te?

«Un tempo per ri-fissare gli occhi su Gesù. È affascinante fermarsi a guardare il modo con cui il Maestro si è scelto i discepoli e ha vissuto con loro. L’anno sacerdotale è dunque anche un’occasione per pensare al dono ricevuto.

Oggi siamo davanti ad un paradosso: se da un lato la drammatica diminuzione del numero di ministri ordinati, specie in Europa, pone la domanda sul futuro della Chiesa, dall’altro si riscontra un’eccessiva attenzione posta sulle tecniche pastorali che il prete deve cercare d’inventarsi per ancora “attirare” i fedeli in chiesa.

A mio parere l’anno sacerdotale può essere un invito all’ascolto: del Maestro, del fratello, di sé. Di qui potrà venire fuori uno stile che tenga più seriamente in conto la storia concreta in cui siamo immersi (che non è solo malvagia e, ahimè, troppo secolarizzata!) e di cui siamo pienamente parte come preti. Se il prete è persona che vive tra la gente è chiaro come l’anno sacerdotale tocchi tutti. Io sono prete se sono in relazione ed è il mio essere-relazione che mi illumina sull’esistenza, sul mio ministero specifico e sulle scelte da fare.

Mi piace concludere con ciò che si diceva del Curato d’Ars: “La gente correva da lui perché trovava in lui un uomo di Dio”. Di noi oggi si dovrebbe poter dire: “La gente corre da noi perché trova fra gli uomini Dio”».

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