Io piccolo e la Grande Guerra
Si chiamava come me, mio nonno, Michele Genisio, classe 1889 (quella di Chaplin, insomma, e un po’ a lui assomigliava: non tanto alto, secco, sguardo vivace, baffetti). Con lui ho passato i momenti più belli della mia infanzia. Seduti sullo scalino di fronte alla sua casa, la sera dopo cena, quando il campanile stendeva l’ombra sulla stradicciola e in alto attorno alla sua cima volteggiavano le rondini. Oppure nell’orto, dopo aver lavorato a togliere l’erba e bagnato gli ortaggi con l’acqua tirata su dal pozzo, quando ci stendevamo all’ombra del grande fico. Oppure al boschetto, tre filari d’alberi piantati lungo un ruscelletto. Nel cavo d’un albero lui teneva il falcetto e il materasso di foglie secche. Nelle pause del lavoro ci stendevamo su quello, lui prendeva un pomodoro, lo tagliava con il coltellino e lo spargeva di sale che teneva in tasca avvolto in un pezzetto di carta. Me ne porgeva una fetta rossa. In tutti quei momenti, quando ci riposavamo, lui arrotolava una sigaretta di trinciato forte, la richiudeva umidendola con le labbra e poi, mentre fumava lentamente, mi raccontava le storie. Io pendevo dalle sue labbra, chiedevo sempre che mi raccontasse “le storie”, anche se erano sempre le stesse.
Erano storie della Grande Guerra, che nei suoi racconti diventava un po’ la sua guerra. Mio nonno erano un grande raccontatore. Da giovane faceva il giamberlec, termine che,nel dialetto della campagna canavesana da cui veniva, indicava uno di quei giovanotti che vivevano nei cascinali, e che la sera facevano il giro delle cascine per raccontare storie e rallegrare la gente prima d’andare a letto. Si riunivano nelle stalle e lì, nella penombra, accovacciati sul fieno, i giamberlec raccontavano storie, e le raccontavano così bene, che grandi e piccini stavano con gli occhi strabuzzati e le labbra in fuori ad ascoltarli. Alle volte quei racconti facevano accapponar la pelle, altre volte sbellicare dalle risate. Poi girava il mestolo con il vino che stava nella tinozza. I giamberlec intonavano canzoni, stornelli. Il mestolo continuava a girare, e il calore della vicinanza tra uomini e bestie e il calore del vino scaldavano gli animi e li mettevano di buonumore, dopo una giornata di fatiche nei campi. Già perché mio nonno, e quelli attorno a lui, era gente povera. Lui aveva tanti fratelli e sorelle, e non c’era molto da mangiare. A scuola era andato solo fino alla seconda elementare, poi a lavorare nei campi. Da quel lavoro l’aveva tolto la chiamata alla leva. Poi un paio di richiami, fino a quando era partito per la Grande Guerra. Fante semplice, in prima linea, in trincea. Lì era con gli altri in mezzo al fango, con poco da mangiare, ma alla vita dura c’era ben abituato. Io la Grande Guerra l’ho vissuta nei suoi racconti.
Erano racconti vivaci, ma addolciti da una velata pacatezza, dovuta probabilmente al tempo ch’era passato. Lui era fra i pochi che erano tornati, dei tanti giovani ch’erano partiti per il fronte dal suo paese. Era stato uno dei fortunati insomma, tutta la guerra in prima linea, e neanche un graffio, neanche una malattia. Per questo quando fu congedato non fu decorato, e lui s’era lamentato: «Che ce ne posso io se non mi hanno ammazzato o ferito, io ho fatto tutto come gli altri». Ma niente. Raccontava di quando era stato preso prigioniero dagli austriaci e una notte era riuscito a fuggire, per non farsi riprendere s’era nascosto tutto un giorno sotto un cumulo di cadaveri. Raccontava dell’immaginetta dell’Ausiliatrice che teneva sempre nella tasca destra dei pantaloni, e di quel giorno quando era in una buca durante un feroce combattimento, e gli era venuto un bruciore fortissimo alla chiappa destra (proprio dove teneva l’immaginetta) e s’era alzato e s’era messo a correre fra i proiettili mentre i suoi compagni gli gridavano: «Michele torna nella buca ma sei impazzito!». Ma subito dopo una bomba aveva centrato la sui buca vuota e lui in mezzo alle granate s’era salvato. Poi raccontava di quando c’era la cavalleria, che attaccava e le sciabole che scintillavano e roteavano, e sembrava una scena dell’altro mondo. Io stavo lì e bevevo i suoi racconti. Non mi stancava mai di ascoltarli. E e ogni tanto gli facevo la domanda a cui lui mai rispondeva: «Ma tu un nemico l’hai mai ammazzato?». Della Grande Guerra erano rimasti solo i suoi racconti straordinari, che avevo poi registrato su un nastro andato perso. Ed era rimasta anche una baionetta, che io usavo per giocare e lui per fare i buchi nella terra dell’orto, per piantare le piantine di pomodori.