Io non mangio «perchè no»

Quali pensieri, quali meccanismi psicologici “scattano” nella mente di chi soffre di disturbi alimentari? Perché ad un certo punto si decide di rifiutare il cibo? Chiara Andreola in Fame d’amore. La mia anoressia (Città Nuova, 2015) ci “fa entrare” in questa ferita dolorosa dell’animo femminile.
Fame d'amore

[…] Lo studio e la carriera non erano più motivo d’orgoglio ma anzi mi frustravano, la vita sociale era ridotta essenzialmente ai mega aperitivi milanesi insieme ai miei compagni di corso (e chi altro, sennò?), i coinquilini non parliamone, e qualsiasi sentimento di amore o di affetto per famiglia e fidanzato

sembrava essersi spento. Anche un altro caposaldo come la vita spirituale – avevo sempre frequentato sia la parrocchia che il Movimento dei Focolari – l’avevo messo nel cassetto. E così, l’unica cosa che ancora ero brava a fare, che ancora potevo controllare e che mi dava estrema soddisfazione appunto per questo era il contingentamento del cibo. Non perché avessi bisogno di dimagrire: a differenza di altre ragazze con lo stesso disturbo, io non continuavo a vedermi grassa al di là di ogni evidenza, anzi: le costole in bella vista mi facevano proprio schifo.

Ma perché, nella vulgata del mondo delle diete, mangiare poco è sempre e comunque una virtù, perché a scuola chi saltava la pausa pranzo per lavorare era bravo – tanto più che non c’era nemmeno una mensa, ciascuno mangiava ciò che si era portato da casa o andava al bar – e perché, accidenti, era l’unico mio successo in quel momento.

E così il razionamento è partito con metodica precisione: dai 100 grammi di pasta a cui ero abituata a 90, 80, 70, e che soddisfazione quando sono riuscita ad arrivare a 40. La fettina di carne è scesa dai 150 grammi a 130, 120, 100, fino a 80, e lo stesso per le porzioni di pesce.

Il tutto andava poi mangiato il più velocemente possibile: il cibo nel piatto mi dava un senso di fastidio perché era qualcosa che non avrei voluto nemmeno vedere, era la «prova del delitto» – ossia dell’aver “ceduto” alla voglia di mangiare: perché mangiare era un mero capriccio, non un bisogno.

Molte volte mangiavo così velocemente che non avrei nemmeno saputo dire che sapore aveva ciò che c’era nel piatto. Anche perché, naturalmente, non usavo più condimenti di alcun genere: non solo sono grassi, ma ti fanno pure venir voglia di mangiare di più, perché rendono il cibo più buono. Per il resto, solo yogurt magri e latte scremato, e tanta frutta e verdura. Poi i trucchi si imparano: per non sentire la fame bastavano tanta insalata a foglia verde e bibite gassate, che riempiono lo stomaco e danno senso di sazietà senza aumentare il conteggio delle calorie, che ovviamente tenevo in maniera maniacale.

Chiedetemi i valori nutrizionali di ciascun alimento e, come diceva un noto comico, «le so tutte», potrei far concorrenza a un dietologo. Appunto per questo motivo, si poneva un altro problema ogni volta che venivo invitata a mangiare fuori: dato che lì il conteggio delle calorie sarebbe probabilmente schizzato verso l’alto, bisognava digiunare prima e dopo per pareggiare il conto. Arrivando molto spesso alla cena o al pranzo in questione con una fame tale da spazzolare piatti degni di Obelix, deleteri per il mio povero stomaco ormai abituato solo a insalatine e yogurt magri, passavo poi inevitabilmente il giorno successivo a letto tra dolori lancinanti. Sia fisici che morali: naturalmente subentrava il senso di colpa per aver mangiato troppo perché mangiare è “sbagliato”. E, come dicevo prima, per me le colpe sono imperdonabili.

 

da Fame d'amore, la mia anoressia di Chiara Andreola (Città Nuova, 2015)

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