Io-noi e Dio
Due di loro fanno il racconto della storia della loro vita, dai primi passi della preghiera in famiglia fino al seminario e al sacerdozio.
José Manuel Morales
Agostiniano spagnolo, José Manuel si situa agli inizi del suo sacerdozio con l’appassionante attività di formatore di giovani nei collegi, piena di iniziative le più disparate: «Erano gli anni ‘60. Ordinato nel 1963, la mia prima destinazione fu il collegio del Buon Consiglio a Madrid. Avevo 26 anni. Il lavoro con i ragazzi mi appassionò. Mi assorbivano tutto il giorno, compresi i fine settimana. Potete immaginare le attività: lezioni, gruppi, ritiri, uscite in campagna, esercizi spirituali, campeggi, scoutismo, visite a case per anziani e periferie povere…».
Arriva il Concilio Vaticano II e Manolo (è il nome con cui è chiamato normalmente) è conquistato dalla novità che esso porta: rinnovamento liturgico, partecipazione dei laici, equipe dei direttori spirituali del collegio: «La sfida era poter parlare di Dio ai ragazzi con abilità e vivacità. Parlare di Dio ai ragazzi era ‘la funzione’ (purtroppo quasi esclusiva ) dei direttori spirituali del collegio. Io, fra le tante altre cose, cominciai a parlare meno di Dio e più del rapporto padri-figli, ragazzi-ragazze».
Manolo a questo punto fa un’osservazione importante: «Avevo sentito dire che quando uscivamo dal seminario, potevamo vivere di rendita solo per tre anni. Passarono i tre anni, e anche i quattro o cinque senza che il mio entusiasmo venisse meno. Noi direttori spirituali di collegio delle quattro Province degli Agostiniani della Spagna siamo arrivati a riunirci spontaneamente per accendere reciprocamente ‘la fiamma’ e scambiare idee e esperienze».
Nel 1967 Manolo partecipa a un incontro delle “Esercitazioni per un Mondo Migliore”. Questa esperienza allarga i suoi orizzonti verso una visione universale della Chiesa, accentuando la comunione e l’unità. «Ma sono rimasto deluso – deve confessare -. Era una grande proposta, nuova, attraente, ma più a livello di idee. Per la realizzazione si rimaneva abbandonati».
Tornato alla lotta, il collegio di Manolo ha conosciuto anni di vera effervescenza. «Il mio provinciale di allora mi diceva che, per poter parlare ai ragazzi ‘con abilità e vivacità’ era necessario non abbandonare la preghiera. Io ci credevo, ma la mia povera esperienza non mi offriva grandi risultati”. A questo punto gli ritorna l’esperienza della famiglia: “Da bambino, in casa, avevo avuto la grazia di vivere molto naturalmente il riferimento a Dio esplicito, senza vergogna, in tutte le circostanze della vita. Avevo perso la mamma a nove anni. Eravamo cinque fratelli; la più piccola, due mesi. Mio padre ci ha sempre parlato della volontà di Dio con naturalezza. Si pregava il rosario tutti i giorni, facevamo la comunione tutti i giorni. In casa si parlava di Dio come di ciò che è il più vero, che non muore mai, che dà senso a tutto nella vita. Come mai però – osserva amaramente Manolo – fatti adulti e in convento la vita soprannaturale non poteva essere esplicita e messa in comune? Doveva rimanere ridotta a una questione privata?».
Joseph Schwind
Con Joseph ci trasferiamo, almeno inizialmente, in Germania: «Ho avuto la gioia di nascere in una famiglia cristiana, sono il penultimo di sei figli. I miei genitori, piccoli agricoltori, hanno impresso fortemente in me l’unione con Dio con la recita del rosario che facevamo tutti i giorni andando al campo. Una parola di mia madre mi aiuta ancora oggi: ‘Gesù, fa’ che io t’ami sempre più. E l’unica ricompensa per questo sia: che io t’ami ancor di più!’. La lettura della vita dei Santi – continua a raccontare Joseph – che nostra madre ci faceva alla domenica pomeriggio, seduti intorno a un grande tavolo, era la sua e nostra più grande gioia. Lì ho sentito, forse, per la prima volta la presenza di Dio in mezzo a noi. Ed è stato ciò che mi ha anche aperto alla vita religiosa-sacerdotale».
Joseph entra nel seminario dei Pallottini soprattutto per il “fervore missionario” dell’istituto, che fin dall’infanzia, confessa, «stava nelle mie ossa». Nei primi giorni è colpito dal tema di un ritiro: Dio, l’Amore Infinito. Durante il noviziato cerca sempre “un di più”, e con alcuni compagni, durante le ricreazioni e i passeggi, condivide le loro esperienze di Dio.
Durante il secondo anno di filosofia, un giorno il superiore domanda agli studenti: «A chi di voi piacerebbe andare in Brasile?». Tutti rispondono affermativamente. Joseph con altri due è scelto e pochi giorni dopo partono. «Senza essere un’isola nella grande comunità dove vivevamo in Brasile – precisa – mettevamo in comune fra noi le nostre esperienze di Dio e pregavamo tutti i giorni il rosario».
A 25 anni José (in Brasile è chiamato così) è ordinato sacerdote. «Una mia grande preoccupazione era di essere sempre fedele alla volontà di Dio con le persone e nella vita di orazione (meditazione, breviario, rosario). Non ho mai usato la mezz’ora di meditazione per preparare l’omelia della domenica seguente. Sinceramente devo però dire che la mia preghiera era più un compiere un dovere che un vero incontro con Dio».
José viene incaricato della formazione (prefetto di disciplina, maestro dei novizi, rettore del seminario maggiore, direttore spirituale). Ma forse la sua maggiore gioia è «poter fare missioni popolari in piccole comunità rurali, dove il popolo semplice mi ha insegnato a pregare e ad avere veramente un profondo contatto con Dio attraverso la sua religiosità popolare».
La Mariapoli
Manolo nel 1968 era stato nominato consigliere nazionale dei giovani di Azione Cattolica: un incarico aggiunto ai tanti altri con il pericolo – confessa – di cadere in «un apostolato senz’anima». Nello stesso anno, però, aveva conosciuto a Madrid un gruppo di sacerdoti che parlavano di Dio fra di loro. Lo incuriosiscono. Accetta l’invito a una Mariapoli ad Avila, ai primi di agosto. «Di questo congresso mi interessava la parte dei giovani – racconta -. Sono riuscito a mettermi nel loro gruppo, ad ascoltarli e interrogarli personalmente. Nella mia attività con i giovani non avevo ottenuto quello che mi è parso di trovare lì: una misteriosa curiosissima pienezza. Le loro esperienze, la gioia, la profondità, la compenetrazione fra loro… Avevano un segreto che mi sfuggiva».
Allo stesso tempo, Manolo partecipava agli incontri con i sacerdoti presenti e soprattutto poté parlare con uno di loro, che gli sembrava facesse parte dell’organizzazione. Tra le altre, gli fece una domanda molto personale: «Quando io mi sento inorgoglito per l’attività apostolica e per dei buoni risultati, è come se tenessi in testa una sfera gonfiata, che non mi permette l’unione con Dio. E quando non mi capiscono o resto solo sulla breccia, sembra che la sfera di sgonfia e mi trovo perso. Ti senti come un limone spremuto e Dio ti rimane sempre più lontano». Semplice la risposta: «L’equilibrio, anche per la nostra salute mentale, risiede nell’unità. Qui c’è una grazia che è anche per te e che illumina il dono dell’unità. Vivi l’unità. Comincia a viverla con queste persone. Vivila nella tua comunità. Viviamola insieme».
José parteciperà alla Mariapoli nel 1971, «fondamentale per una ‘nuova’ unione con Dio», sottolinea. «Ho sentito una presenza molto forte di Dio per il clima di fraternità e di gioia fra 1000 partecipanti. Erano persone di tutte le età, classi e professioni – semplici contadini, medici, avvocati, sacerdoti ecc. – tutti impegnati e attivi, che facevano le pulizie, servivano durante i pasti, lavavano i piatti, si scambiavano le esperienze: col sorriso sulle labbra. Per me era un’esperienza di Paradiso».
Quattro anni dopo, José ha l’occasione di passare un anno nel Centro internazionale di spiritualità e di comunione per sacerdoti del Movimento dei Focolari presso Roma, durante il quale – dice – «ho vissuto una nuova avventura di scoprire Dio non solo in me, ma anzi di avere ‘Gesù in mezzo’ a noi». Come radice di questa unità scopre Gesù crocifisso e abbandonato, al quale si consacra. Sarà preso in parola: tornando in Brasile, gli è chiesto di essere rettore del seminario maggiore, in piena crisi. Lo sostiene l’unità con un altro religioso, con il quale si incontra quasi ogni settimana, potendo avere la presenza di Gesù fra loro: «Per me è stato come un angelo nel mio Orto degli Ulivi», commenta.
Manolo torna a Madrid da Avila con una preoccupazione: come fare per non perdere quello spirito? È convinto che è arrivata nella Chiesa una nuova vocazione con la missione unica ed esclusiva di promuovere l’unità, di illuminarla vivendola. Per questo, comincia a incontrarsi con altri sei religiosi di famiglie religiose differenti. «Ho capito ciò che è un carisma – commenta -. E in quella piccola riunione di religiosi mi si è presentata, in un modo completamente nuovo, in tutta la sua bellezza la dimensione carismatica della Chiesa. Ho capito che i nostri ordini, congregazioni sono ‘movimenti’ nella Chiesa, della Chiesa, per illuminarla e vivificarla. Sono una presenza di Cristo. Tutti e ogni carisma, tutti e ogni fondatore sono nati e ci sono per il bene di tutta la Chiesa».
«Pertanto – conclude – nel cuore di noi che stavamo in quel gruppo, e delle nostre famiglie religiose, c’era una tensione all’unità (‘che tutti siano uno’), per la realizzazione del Testamento di Gesù. Quella che potevamo chiamare ‘spiritualità dell’unità’ era una spiritualità perfettamente ecclesiale, che ci riguardava direttamente, perché i nostri ordini sono la Chiesa».
Dopo sei anni a José è affidata una parrocchia all’interno dello Stato di São Paulo. Al momento del suo ingresso ufficiale, dichiara al popolo che il parroco sarebbe stato Gesù e non lui e per questo è disposto a dare la sua vita per ognuno dei parrocchiani, e se ci fosse almeno una persona con la stessa disposizione, la parrocchia si sarebbe realmente trasformata nel Regno di Dio. Immediatamente una persona si offre e a poco a poco se ne presentano altre. Nasce un piccolo gruppo che si riunisce tutti i sabati intorno alla Parola di vita, che cercano di mettere in pratica.
Alcuni anni dopo, José soffre un gravissimo incidente stradale in pullman, che lo immobilizza per 5 settimane in sala di rianimazione: «Solitudine e dolori incredibili, con esperienza di depressione” – ricorda -, infezione ospedaliera, peritonite acuta, pleurite acuta. Sono sottoposto a cinque operazioni. Mi rendo conto che posso dare il mio piccolo contributo alla Redenzione, abbracciando Gesù crocifisso e abbandonato: aiutare confratelli in crisi, famiglie davanti alla vita nascente, unione dei movimenti, vita nuova nella Chiesa».
Tanti i frutti: «Una nuova idea della vita; un programma sulla Parola di vita nella radio con più ascolto della città; una nuova unità nella parrocchia; uno sviluppo impensato del ‘Lar dos Meninos’, un’opera per minorenni (orfani, ragazzi di strada o a rischio) e per famiglie più o meno regolari per dare loro un nuovo concetto della vita. L’opera attende 1000 persone, per la metà minorenni».
José due anni fa è stato trasferito a Roma, alla chiesa dove è sepolto il suo fondatore, Vincenzo Pallotti. Ogni giorno riceve un buon numero di visitatori di tutto il mondo e di diverse convinzioni religiose. La sua esperienza di unione con Dio passa in particolare attraverso il suo «cercare di parlare sempre da Gesù a Gesù. E questo funziona e dà gioia a tutti», testimonia.
Manolo conclude la sua testimonianza con un tocco mariano: «Quello che arrivava alla Chiesa attraverso l’Opera di Maria era la santità collettiva e una nuova vocazione al servizio di tutti, un’invenzione di Maria per farci crescere come figli simili a lei, uno stampo divino. Per realizzare questo si richiede un cammino di maturazione, che sciolga il nostro uomo vecchio e formi in noi l’uomo nuovo. Così, ‘cristificati’, finiamo per ‘assomigliare alla Madre’, acquisiamo i suoi stessi lineamenti come veri figli e con ‘naturalezza’ – con lo stesso sangue – ci rivolgiamo a lei e lei ci riconosce. E sviluppando l’‘uomo nuovo’, acquisiamo un ‘timbro’ mariano, che ci permette di rivivere Maria». E, in una progressione, canta con stupore: «Passiamo dalla devozione, dalla stessa imitazione, a… rivivere Maria!».
Matteo Rebecchi
Accanto a due religiosi “maturi”, abbiamo interpellato un saveriano italiano più giovane, missionario in Indonesia. Matteo racconta in maniera asciutta e “corposa” come vive in concreto l’unione con Dio. Riproduciamo le sue testimonianze senza commenti: non ce n’è bisogno.
«Ho ricevuto una mail da un gen che mi raccontava di aver provato a pulire il pavimento della sua casa per amore e aveva sentito una gioia profondissima, come se fosse nato in questo mondo soltanto per compiere quel lavoro che stava facendo. Per combinazione oggi dovevo proprio pulire la mia stanza. Ho provato a spazzarla e a passare lo straccio con la maggior precisione possibile per seguire l’esempio di quell’amico. Anch’io ho provato gioia, come se quel semplice lavoro fosse diventato bellissimo e sacro. Ho pensato che in qualsiasi momento e in qualsiasi attività, l’incontro con Dio è possibile. Non ci sono più tempi ‘vuoti’ o azioni ‘insignificanti’, ma qualsiasi cosa facciamo può diventare tempo sacro se la viviamo nell’amore».
«Un giorno tornavo dalla chiesa vicino a casa dove avevo partecipato alla festa di matrimonio di un amico. Stavo camminando quando sono passato davanti ad un’officina. Lo sguardo si è posato su un chiodo caduto proprio davanti al cancello di entrata. Con così tante auto che passano da quel cancello, certamente un chiodo poteva diventare dannoso. Ma ho continuato la mia strada perché ho pensato che la pulizia dell’officina non era certo compito mio… e poi ero vestito bene: non è normale che una persona ‘distinta’ si scomodi per raccogliere un chiodo! Ho continuato la mia strada, ma ad un certo punto una voce ha sussurrato nel cuore e mi ha invitato a tornare indietro per raccogliere il chiodo. Mi è venuta in mente la Parola di vita che dice ‘pregate continuamente’ e mi sono sentito spinto a dire: ‘Per Te nei padroni delle auto che attraverseranno questo cancello’. Sono tornato indietro e ho raccolto il chiodo, poi sono andato a casa contento. Se ‘prego continuamente’, anche un chiodo può farmi felice».
«Normalmente tutti i giorni prima della messa dedico tempo alla mediazione leggendo la Bibbia (le letture della messa) o altri scritti spirituali. Mi accorgo che sto prendendo sempre maggiore coscienza della bellezza del tempo dedicato alla meditazione. Come preparazione faccio sempre un momento di silenzio mettendo a tacere le voci che ho nell’anima. Questo semplice passo è spesso già sufficiente a dare pace e una gioia particolare, perché mi rende cosciente che sto incontrando il Signore. Mi accorgo spesso che riesco a gioire anche dei passi successivi, nel progredire della meditazione: senza fretta mi metto a leggere frase dopo frase, con calma. Poi mi fermo per contemplare e parlare con Dio quando c’è qualche parola che mi colpisce particolarmente… Mi sto accorgendo che la meditazione non è più tanto un obbligo in quanto sacerdote e neppure rappresenta un modo per imparare qualcosa, ma piuttosto è la possibilità di godere dell’incontro con l’Amore».