Fadi Chehadé: Internet può aiutarci ad ascoltare l’altro
Internet e i social creano un contesto multiculturale, multireligioso, multietnico… Si credeva che la rivoluzione digitale avrebbe magicamente formato individui capaci di portare a una coabitazione pacifica del pianeta, ma nei fatti si vede una recrudescenza dei nazionalismi mascherati da sovranismi.
Abbiamo scoperto, contrariamente a quanto si pensasse 20 anni fa, che la potenza della Rete può essere utilizzata per creare delle “isole di pensiero”, quelle che il fondatore del web, Sir Tim Berners-Lee, chiamava walled garden e che detestava, perché per lui il web era stato creato per aprire porte, non per chiuderle. Ma non c’è da stupirsi. Bisogna sempre pensare che Internet, come tutto nella vita, ha la potenza di creare un’umanità che ha i mezzi di ascoltare l’altro, superando il proprio cerchio di conoscenze, e nello stesso tempo ha la possibilità di individuare degli angoli in cui nascondersi. Cioè, bisogna separare Internet da quello che succede al suo interno: oggi Internet è composto da circa 77 mila reti separate ma riunite insieme. Legati a questa Rete, ci sono circa 30 miliardi di oggetti (telefoni, orologi, computer, termometri digitali, il campanello di casa…). Mio figlio, che abita in un altro Stato degli Usa, è ancora legato col suo telefonino al nostro campanello, e ieri mi ha chiamato per dirmi che qualcuno bussava alla mia porta! Tutto è legato. 30 miliardi di cose, ma nel 2030 ci sarà circa un trilione di cose collegate, tra cui molte nuove, non solamente telefoni e computer ma anche il mio cervello, il mio cuore… Oggi ci sono già centinaia di migliaia di pacemaker collegati a Internet. Ecco, quindi, la nuova prospettiva che fa paura: l’infrastruttura fisica e quella biologica del mondo saranno legate alla Rete. Gli umani e i robot, tutto sarà legato a Internet.
Tutto quello che succede sulla Rete, come l’invio di mail o messaggi Whatsapp, tutti i post dei social, sono semplici applicazioni. L’intero “world wide web” (il www) è un’applicazione su Internet.
Bisogna sempre separare Internet, che dà la possibilità di legarsi, e che è a mio avviso il frutto di un genio incredibile, l’amico Berners, che mi ha sempre detto: «Io ho voluto creare qualcosa di aperto; quando ho istituito il protocollo centrale della Rete, potevo scriverlo più chiuso e sicuro, ma l’ho realizzato aperto e collaborativo, per mettere tutti a tavola». L’essere umano, però, ha scelto di usare questa Rete in modi diversi. Pensiamo al dark web, che costituisce i tre quinti del www, ed è invisibile ai più. C’è il visible web (un quinto), cioè tutto quello che vediamo normalmente, e c’è questo dark web, creato dai militari statunitensi, in cui si possono condividere le cose in modo anonimo e segreto. Così oggi viene utilizzato non solo dai militari, ma anche da terroristi e criminali.
Internet e i social sembrano aver ridotto lo spazio dell’opinione pubblica, lasciando in primo piano solo l’opinione individuale. Sta arrivando un relativismo assoluto?
A Oxford, Ngaire Woods, professore di Global Economic Governance, parla molto della “voce dell’individuo” nel nuovo mondo digitale. Sostiene che la voce dei governi diventa sempre più chiara, ad esempio la Danimarca ha creato un “ambasciatore digitale” nella Silicon Valley: i governi cercano cioè di far sentire la loro voce nel mondo digitale. Singapore farà lo stesso, e sempre più ciò accadrà. Io passo parte del mio tempo a Oxford e Harvard, a parlare con ministri e responsabili del mondo intero per prepararli a far sentire la loro voce nell’universo digitale. I governi sanno farlo. Gli uomini d’affari stanno anche loro cominciando a capire che devono farsi sentire sulla Rete. Non era chiaro come farlo, ma ora Microsoft, per fare un esempio, è la prima compagnia digitale che sta cominciando a parlare del ruolo umano, sociale e legale nel mondo digitale in modo aperto. Brad Smith, il suo presidente, è stato il primo nel 2017 a dichiarare che c’è bisogno di una sorta di “convenzione di Ginevra” per il mondo digitale. È stato attaccato da altri, che pensano che così si crei una regolazione contraria alla deregulation. Ma Smith ha spiegato che ciò, al contrario, darebbe maggiore responsabilità al business, e permetterebbe a queste imprese di far sentire la propria voce nel mondo digitale. La terza dimensione necessaria è quella della persona. Come si fa sentire la voce dell’individuo nel mondo digitale? Ngaire Woods sostiene che ormai è chiaro per governi e imprese come fare, ma non lo è per gli individui. Questo è un paradosso: Internet dà all’individuo, come mai nella storia dell’umanità, la possibilità di esprimersi e mettere la propria voce nella piazza pubblica. Ma, a causa delle cattive intenzioni di persone che controllano il dibattito pubblico su Internet, la voce dell’individuo è difficile da individuare e valorizzare. È una vera voce? È una voce manipolata?
Un altro cantiere si è aperto, dopo quello sul “data privacy”, ed è quello del “data integrity”. C’è da preoccuparsi?
Se su Internet qualcuno dice che io avrei detto una tal cosa, come si può sapere veramente se è stato Fadi Chehadé a parlare? Ormai c’è la capacità di prendere dal web una mia foto e creare un video in cui il sottoscritto parlerebbe con espressioni precise: è la tecnica del deepfake. Si può capire come il problema del data integrity stia diventando gravissimo. A casa mia, ad esempio, non rispondiamo più agli appelli di imprese che potrebbero voler sentire la mia voce per poi modificarla e chiamare la mia banca usando la mia voce: abbiamo deciso che, quando si alza il telefono, non si risponde per primi, e se l’altro non parla si riaggancia. Anche con pochi secondi rubati della mia voce, con i programmi sofisticati di oggi si può riprodurla e creare un robot che parla con la mia stessa voce. Insomma, la voce dell’individuo non è ancora chiara sul web. Il problema dell’identità diventa molto serio. E poi abbiamo poca esperienza per sapere come ascoltare la voce dell’individuo in modo “puro”, integro, che non sia messo in una cornice da qualcuno malintenzionato. Mustafa Suleyman, direttore generale di Google DeepMind, spirito molto aperto, lavora per creare ambienti in cui gli individui possano esprimersi senza essere confinati in un framework, dove la voce sia chiara sin dall’inizio e venga direttamente dalla sorgente vera. Non è ancora chiaro come fare, e ciò fa paura. Se la voce del governo e delle istituzioni è chiara e se la voce dell’impresa lo sta diventando, se cioè le voci di coloro che stanno controllando gli esseri umani sono forti e chiare, la voce pura della persona singola, dell’individuo, non ha ancora un luogo sicuro in cui esprimersi senza manipolazioni. Ma qualcosa succederà, credo che un nuovo Facebook sarà inventato in modo da permettere alla voce umana individuale di esprimersi in modo libero, non controllato, diretto.
Genetisti e biologi discutono sull’influenza del digitale sulla nostra mente, sul cervello umano. Che rapporto avremo con le macchine?
Attualmente il digitale in fondo sta già influenzando le nostre decisioni. Gli scienziati che fanno ricerche avanzate sul pensiero e su come cambia il nostro cervello non stanno pensando come i sistemi sostituiranno l’essere umano – ciò è già del passato, cioè come i sistemi digitali sostituiranno le attività umane che non sono interessanti –, ma si indaga su come le decisioni verranno prese. Le macchine e gli umani lavoreranno assieme. Non sarà “o l’uomo o la macchina”, ma “la macchina con l’uomo”: ci saranno molte decisioni prese in modo ibrido. Con la potenza dell’intelligenza artificiale evolveremo diversamente e prenderemo decisioni in modo diverso da ora, con l’ausilio delle macchine. Oppure saranno le macchine a prendere delle decisioni con l’ausilio degli umani. Un esempio: oggi, negli Usa, se chiami Apple per un supporto tecnico, è una macchina che ti risponde e conversa con te: «Buongiorno, buonasera, in cosa posso esserle d’aiuto?». La macchina ascolta e dialoga con te. Già oggi le macchine da sole sono capaci di risolvere l’80% dei problemi senza l’ausilio degli umani. Il problema è che tu puoi avere un accento pronunciato, e allora la macchina che conosce tutti i problemi dell’Iphone, a volte non ti capisce. Come risolvere il problema? Ho lavorato su questo dossier a lungo. La cosa più difficile da capire, oltre all’accento, sono le emozioni: sono arrabbiato, mi disturba chi mi ha venduto l’oggetto, non sono soddisfatto.
Dunque la macchina non capisce le emozioni, ma deve farlo. Come?
Quando la macchina ascolta il tono della voce o l’accento e non capisce qualcosa, può semplicemente decidere che ha bisogno dell’umano. In tempo reale la macchina registra la voce dell’interlocutore umano e l’invia a un umano che l’ascolta immediatamente e che dice alla macchina quel che deve fare, o piuttosto l’aiuta a decidere il da farsi. Migliaia e migliaia di persone lavorano a casa loro in questo modo, suggerendo alla macchina quegli elementi che possono fargli capire che cosa sta succedendo. La macchina poi decide come concludere il processo con l’umano. È l’umano che supporta la macchina per finire il proprio lavoro. Ma l’opposto è anche vero: ci sono molti umani che, quando ascoltano qualcosa, chiedono aiuto alla macchina che, con analisi enormi in tempo reale, capisce quel che succede. È un modello ibrido. E ciò sarà positivo, perché la macchina non può sostituire l’umano e viceversa. Il problema è la forma e la sostanza della collaborazione. La stiamo definendo. I medici utilizzano la macchina e la macchina utilizza i dottori: sarà una relazione simbiotica molto positiva.