Intervista a Domenico Iannacone
Dalla finestra del suo ufficio campeggia la scritta gigantesca “Rai. Centro di produzioni tv” di Via Teulada in Roma. Tanta imponenza, all’esterno, di fronte a uffici dimessi, all’interno, quasi in stato di antico abbandono. Domenico Iannacone è uno dei giornalisti di punta di Rai 3, vincitore, per ben 5 volte, del premio Ilaria Alpi. Okkupati, Ballarò, Viva l’Italia, Presadiretta sono le tappe di un percorso che lo hanno portato a ideare e condurre un programma tutto suo, I dieci comandamenti, giunto alla quinta edizione. Di rara umanità, affabilità e gentilezza, al termine dell’intervista mi accompagna fino al parcheggio, fuori dai cancelli della Rai.
Domenico, quali sono le tue coordinate essenziali?
Sono nato nella profondissima provincia italiana, un paese di mille anime, Torella del Sannio, in provincia di Campobasso. La passione per il giornalismo è nata da ragazzo. Con un compagno stampavamo al ciclostile il nostro primo giornale con cui volevamo raccontare il nostro paese. Dalla carta stampata alla letteratura, poi, di nuovo giornalista per un quotidiano locale, fino all’approdo televisivo. La formazione sul campo, in provincia, mi permette di essere quello che sono oggi. È una sorta di Dna che mi fa avvicinare alla gente con un ritmo narrativo che è rimasto tale e quale. La provincia si racconta con calma.
Come definiresti il tuo mestiere?
Mi definisco un cantastorie e un romanziere perché da giovanissimo ho collaborato a delle riviste letterarie. Una si chiamava La tartaruga, curata da Amelia Rosselli per il gallerista romano Plinio De Martis. Ho conosciuto tutti i più grandi poeti del ’900 italiano: Mario Luzi, Giorgio Caproni, Attilio Bertolucci e tanti altri. Mi sono immerso nella poesia e nella letteratura che, ora, influenzano la forma dei miei racconti televisivi.
Si può definire poetico il tuo stile di creare immagini?
Poetico non nel senso di edulcorato, ma una poetica del racconto fatta di sensazioni, di linguaggi, di ritmo narrativo. Tanti aspetti che, messi insieme, creano uno stile originale che contraddistingue anche il mio modo di essere.
Nella stessa evoluzione del programma I dieci comandamenti, dalla prima edizione all’ultima, assistiamo a un ruolo di arretramento del tuo ruolo di conduttore del programma. Una sempre maggiore sottrazione di parole e di spazio per dar sempre più voce alle storie delle persone. Perché questa scelta controcorrente rispetto alla sindrome invasiva del conduttore medio che tende a sovrastare, a commentare?
Perché ho capito che bisognava ascoltare. Nel panorama del giornalismo d’inchiesta mancava una sorta di punto di ascolto. Il giornalista o il conduttore, spesso, attraverso gli altri, vuole rappresentare sé stesso. Ho pensato che avevo una posizione privilegiata. Potevo stare in un luogo. Ascoltare le storie e riportarle per quelle che erano. Se io sottraggo del tempo per le mie suggestioni e lascio neutro il campo d’azione, racconto meglio la verità. È stato il viatico che mi ha portato a raccontare in modo più asciutto, con meno invadenza. Volevo essere presente ma non essere un intruso.
Rispetto alla frenesia, la superficialità di tanti programmi tv, perché la scelta di una narrazione dilatata, riflessiva e “posata” dal punto di vista della costruzione e della cura delle immagini?
La vita normale ha dei tempi propri e non è scandita da un ritmo televisivo. Se voglio proporre un modello televisivo di verità, non posso imporre qualcosa di artefatto. Nella vita ci sono le pause e ci sono dei luoghi raccontati con rigore stilistico. Allora riproduciamoli così come sono: ogni cosa deve avere una sua verità. È evidente che, facendo televisione, curo le immagini perché attingo dal filone e dalla ricerca del documentarismo e del cinema italiano. Si possono fare inchieste, raccontare storie, far emergere i mali della società italiana, ma con dei canoni che si avvicinino al flusso normale dell’esistenza umana.
Perché le pause, i silenzi, i rumori impercettibili, diventano parte integrante della narrazione e osservo che non hai paura dei tempi morti?
La pausa è un momento in cui do al telespettatore la capacità di sedimentare quello che gli stiamo raccontando. Altrimenti, se opero un taglio, né io né il telespettatore avremo la possibilità di un momento di verità.
Eppure anche tu hai lavorato a talk show come Ballarò, Viva l’Italia, Presadiretta… Perché ti sei messo in proprio?
Per fare questo lavoro c’è bisogno di farlo con umanità, in maniera deontologicamente inappuntabile perché, in fondo, siamo come dei medici che devono curare le ferite della società. Dobbiamo essere onesti e raccontare quello che non funziona. L’idea che, per una compressione di spazio, non per censura, dobbiamo mutilare il racconto con dei tagli innaturali, ha significato, per me, non fare bene il mio lavoro. Per me i talk fanno parte di una liturgia che ha perso di significato. Formule vuote. Guardi dei programmi, ma non rifletti. Se vedi un film al cinema e il giorno dopo ci ripensi, vuol dire, invece, che ha funzionato perché ha lasciato un segno.
Chi sono stati i tuoi ispiratori?
Se dovessi fare una mappa che ha contrassegnato la mia formazione ed evoluzione, penso a Pasolini, Zavoli, Gregoretti e Comenicini. Pasolini mi ha dato uno sguardo privo di preconcetti verso il mondo, Zavoli il rigore, Gregoretti l’ironia e l’autoironia, Comenicini l’approccio candido verso l’infanzia.
Noto in te una grande capacità di ascolto e di entrare in empatia con le persone, di relazionarti. Da dove nasce questo atteggiamento?
Fa parte del mio carattere e della formazione familiare. In questo sono simile a mia madre che in paese aveva una piccola attività commerciale. Era una donna, mancata da poco, che aiutava sempre tutti ed entrava sempre in relazione con gli altri. Mio padre mi ha insegnato che bisogna comprendere il valore del lavoro. Ogni volta che mi reco nei tanti luoghi d’Italia, noto le tracce del lavoro nei volti delle persone. Credo che la relazione, l’empatia, la possibilità di discorrere si creano perché le persone si vedono in me, ci riflettiamo reciprocamente. Parliamo di noi con naturalezza, con il nostro io, e le persone si fidano. Diventa una osservazione partecipata che ti permette di scoprire mondi inesplorati. Diventi nuovo, curioso della vita.
Siamo come dei medici che devono curare le ferite della società. Dobbiamo essere onesti e raccontare quello che non funziona
Da dove nasce l’idea de I dieci comandamenti?
Si pensò insieme al direttore di Rai 3 di allora, Antonio Di Bella, e al capostruttura Fernando Masullo, di fare un lavoro sul decalogo in maniera laica declinando i comandamenti in 10 puntate. Dopo aver fatto tante inchieste giudiziarie giornalistiche, ho capito che c’era un nuovo viaggio da fare dentro di noi, nel nostro animo. Così sono nate le inchieste morali.
Non esiste comunque anche nell’inchiesta morale un punto di vista che orienta le scelte e indirizza verso un pensiero prestabilito?
Nei talk in cui ho lavorato c’erano degli schemi molto rigidi: sapevi già cosa andavi a raccontare. Qui ho una libertà più ampia. Parto e posso raccontare quello che vedo. L’idea che mi son fatto può essere assolutamente ribaltata. Ciò che ritenevo impossibile, nella realtà, lo trovo possibile. Non ci possono essere manipolazioni di fondo e, per questo, l’inchiesta morale non è ideologica.
Come si compone una puntata? È definita tutta in partenza, in scaletta, o nasce anche dal contatto con il territorio?
Si può partire da un tema, un luogo, un fatto, una storia. Molto si fa anche sul campo, è una sorta di neorealismo. Alcune storie sono scoperte sul momento, altre sono pianificate, però i meccanismi sono variabili. Mi lascio guidare dall’istinto, cerco di capire dei segnali che mi permettono di orientarmi e trovare la strada giusta per raccontare. L’importante è che mi senta totalmente libero perché parlo di problemi etici, di territori, di ingiustizie, ma anche di aspetti positivi.
Attraversando l’Italia dal basso, visitando tutti i tipi di ambienti e di persone, che idea ti sei fatto del Belpaese?
Non riconosco più il nostro Paese. È sfregiato, sfilacciato, smarrito. Ha bisogno di ritrovare una propria identità morale. Chi ci salverà? Non ci sono Paesi europei da seguire perché non esistono modelli da imitare. La disaffezione politica, il populismo fanno parte di questa mancanza di prospettive. Ogni popolo, di conseguenza, si chiude in sé stesso, alimenta le sue paure, si rifugia in chiusure senza senso.
Cosa ti resta di questa umanità dolente che hai incontrato?
Mi porto tante emozioni fortissime dentro. Sono storie che non terminano con il mio passaggio perché esiste un meccanismo per cui resto in contatto. Le vite delle persone non possono essere utilizzate e poi abbandonate a sé stesse. E mi piange il cuore quando non riesco a fare quello che vorrei.
Papa Francesco invita i comunicatori a cercare narrazioni che non solo evidenzino i mali, ma sappiano trovare buone notizie. Si può fare?
Esistono iniezioni di fiducia e, nel mio racconto, come uomo, le vado cercando. Nella liturgia televisiva le cattive notizie fanno più effetto e le buone notizie sono accantonate. Nei miei viaggi cerco la speranza, di raccontare il bene, non scanso il positivo, anche in piccoli fatti. In Veneto, per esempio, un operaio mi ha comunicato la sua felicità di aver ritrovato un lavoro. Sembrano banalità, ma ancora oggi a rivederlo mi emoziono.
C’è ancora necessità e spazio per il servizio pubblico televisivo? A quali condizioni?
Mi piacerebbe che almeno una parte della tv pubblica si sganciasse dallo share per riconquistare spazi inesplorati di racconto. Serve un movimento culturale per raccontare tutto il Paese, indipendentemente dalle mode, liberi dal meccanismo cannibalizzante di raccontare sempre gli stessi episodi con gli stessi ospiti. Un fatto viene così triturato fino a perdere di ogni significato. Per questo occorre un progetto culturale che possa aiutare la gente a diventare più profonda.