Intervista a Damiano Tommasi
Ribattezzato curiosamente “l’anima candida” della Roma, con la quale vinse un leggendario scudetto nell’anno del Giubileo, Tommasi si è distinto in carriera come modello di lealtà sportiva, oltre che per essere stato il primo calciatore italiano a giocare nel campionato cinese nel 2009. Già giocatore della Nazionale italiana, è stato protagonista di numerose azioni benefiche anche prima di ritirarsi dal calcio professionistico. I più appassionati in particolare ricorderanno di lui la decisione di autoridursi “per riconoscenza” lo stipendio (1.500 euro al mese), quando rientrò a giocare nella Roma dopo un gravissimo infortunio.
Quando è nata la passione per il calcio? E cosa è stato, per te, il “mestiere” del calciatore? Ho iniziato a camminare e credo ci fosse già il pallone tra i piedi. Avendo due fratelli più grandi di 1 e 3 anni, era inevitabile appassionarci a un gioco così immediato e popolare. Il mestiere è arrivato progressivamente e ha accompagnato la mia ricerca di giocare con gli interpreti più bravi di questo sport. Non è stato semplice vivere uno sport e un gioco che impegnano molto anche fuori dal terreno sportivo. Lavoro e sport agonistico hanno comunque in comune molte peculiarità, una su tutte la metodicità degli impegni e la costanza.
Poi la rappresentanza sportiva del sindacato calciatori, l’Aic: perché questa scelta? Da anni facevo parte dell’associazione di categoria e di ritorno dalla Cina eravamo a un momento storico. Sergio Campana, presidente dalla fondazione, avvenuta nel 1968, aveva deciso di fare un passo indietro e si prospettava un mandato presidenziale di un solo anno: nel 2011 volevo continuare a giocare in seconda categoria e per questo cercavo un impegno che mi lasciasse libero la domenica. Vivo a Verona e la sede dell’Aic è a Vicenza, inoltre il solo anno di mandato mi avrebbe permesso di capire se effettivamente era un ruolo che potevo ricoprire e nel quale potevo dare un contributo alla mia categoria. Sono ora al terzo e ultimo mandato e diciamo che il dietro le quinte del nostro calcio non mi ha ancora stancato… o quasi.
Cosa può fare l’Aic per i comuni italiani che vogliono educare allo sport? Cosa possono fare i comuni per l’Aic? Dal 2012 abbiamo aperto un dipartimento Junior con il quale diamo supporto ai tanti ex calciatori e calciatori in attività che lavorano con i bambini. Dall’anno scorso supportiamo in tutta Italia, e non solo, attività di scuola calcio con un metodo un po’ particolare dove la crescita del bambino in quanto cittadino sportivo è al centro del progetto. Abbiamo una richiesta continua di collaborazioni anche con le istituzioni per la promozione di una sana cultura sportiva attraverso il calcio.
Hai avuto tanto: perché impegnarsi nella rappresentanza per i diritti di altri? Probabilmente posso spiegarlo con l’espressione di un amico che da qualche anno ho fatto mia: bisogna occupare gli spazi di azione se si vuole imprimere un cambiamento. Se vogliamo cambiare ciò che non ci piace, dobbiamo esporci in prima persona senza lasciare carta bianca ad altri, che altrimenti occuperanno spazio e sceglieranno al posto nostro.
Se tu dovessi stilare un elenco di priorità per la Federazione gioco calcio, quali riterresti i problemi più scottanti del calcio attuale da affrontare? Riportare il progetto sportivo al centro del villaggio. Sembra semplice e forse riduttivo, ma ha tantissime declinazioni a tutti i livelli, dal settore giovanile alla Nazionale.
In proposito, quali sono le pecche del movimento calcistico italiano e perché altri Paesi ci passano davanti? Altri Paesi hanno investito e investono su progetti sportivi che noi non abbiamo e che quindi vengono demandati alle singole società. Troppo spesso le singole società cercano i giocatori già formati all’estero per poi valorizzarli: ciò che una volta si cercava nelle categorie inferiori italiane, oggi si cerca di più all’estero anche perché all’estero credono di più nei giovani e quindi si trovano ragazzi che, già da molto più giovani dei nostri, hanno esperienze internazionali. Purtroppo il calcio sta spostando sempre più il suo baricentro verso il business trascurando la progettualità su un’idea di sport: per formare un giovane servono impegno, tempo e idee e non un buon agente. Purtroppo troppe società investono in scouting all’estero molto più di quello che investono nei loro settori giovanili qui in Italia. Quando ci accorgeremo che senza buoni cittadini non avremo buoni sportivi, e senza buoni sportivi non avremo buoni risultati economici, forse faremo qualche passo indietro e qualche scelta strategica diversa.
Sottolineare la dimensione sportiva come ambito di crescita a chi si occupa di educazione appare dunque un modello programmatico per te… Certamente e non a caso, l’Aic sostiene il progetto “Oltre la barriera: una partita da vincere”, portato avanti con la Rete europea risorse umane in collaborazione con istituzioni e associazioni sul piano nazionale e toscano. Mi sento #OltreLaBarriera, citando lo slogan del progetto di Rerum, perché posso raccontare tante esperienze in cui ho visto lo sport abbattere barriere, educare ed addentrarsi nelle periferie.
Un problema di pianificazione: in Italia, se non vinci, spesso non passano due mesi prima di vedere esonerare un tecnico… Non sono rari neanche i casi di esoneri ancora prima di iniziare la stagione: si cerca di comprare e vendere più che costruire e ad essere penalizzato è tutto il processo di crescita dei giovani perché, quando a un giovane non dai tempo, rischi di bruciarlo e perderlo per strada.
Sei sposato, con 6 figli: cosa diresti alle giovani coppie che si interrogano sul loro futuro? Ho avuto la fortuna di incontrare una persona speciale e per questo faccio fatica a dare consigli o suggerimenti perché potrei essere troppo ottimista. Di sicuro è il presente la base di qualsiasi futuro: si costruisce giorno dopo giorno senza mai dimenticare che la vita di coppia è il più grande esercizio di tolleranza possibile. Si condividono le cose più importanti che abbiamo (figli, futuro, quotidianità, intimità, idee…) con una persona che abbiamo scelto. Tutti gli altri rapporti, anche quello tra genitori e figli, non li abbiamo scelti ma sono quelli che ci siamo trovati, per questo nella coppia bisogna soprattutto credere.
Qual è la sfida più difficile per un genitore, spesso impegnato tra più responsabilità? Quella di sapersi mettere al fianco dei propri figli: presente ma… di lato. Spesso il rischio è quello di mettersi invece davanti e tirare i figli nella direzione voluta da noi oppure mettersi dietro e spingere i nostri figli nella direzione in cui crediamo noi.
Sia da genitore, che da presidene Aic, qual è il tuo parere sulla scelta del presidente Tavecchio di sottoscrivere un accordo di sponsorizzazione per la Nazionale con Intralot, piattaforma di scommesse e gioco d’azzardo? Ho già detto pubblicamente e anche in Consiglio federale che è un grandissimo errore e che la Figc non può permettersi di firmare accordi di questo tipo con aziende che lavorano in ambiti vietati per legge ai minori. La Figc deve dare ben altro tipo di messaggi.
Lo scorso novembre hai voluto essere presente a Loppiano, nel comune di Figline Incisa Valdarno, per l’inaugurazione del Centro di alta formazione Evangelii Gaudium, svoltasi nell’Istituto Universitario Sophia: perché, dato che si tratta di un Centro che promuove e sostiene la formazione, lo studio e la ricerca nell’ambito dell’ecclesiologia, della teologia pastorale e della missione? Ho partecipato ed espresso il mio pensiero con un microfono in mano in rappresentanza dei calciatori italiani professionisti e dilettanti, ma anche del consiglio nazionale del Coni: in effetti in quell’inaugurazione abbiamo sentito tante parole che riguardano lo sport, a cominciare proprio dai capisaldi dello stesso Centro Evangelii Gaudium, di cui il preside di Sophia, Piero Coda, ha parlato. Mi sembrava di sentir parlare di una squadra di calcio: spirito, passione, libertà, concretezza, creatività sono i capisaldi indicati per il neonato Ceg ma di fatto sono gli stessi necessari in una squadra, senza dimenticare poi che, quando si parla di Chiesa missionaria e in uscita, la mente va nelle periferie del mondo dove, se si arriva con un pallone in mano, tutti partecipano al gioco.
Cosa può fare lo sport per abbattere le barriere, soprattutto nelle periferie? Basta pensare che, quando si parla di abbattere le barriere, non possiamo non ricordare come quasi ogni grande sportivo è nato e cresciuto in periferie, che meritano perciò di essere riportate al centro dell’attenzione della pratica sportiva. Per questo mi piace più pensarmi come genitore, uomo, cittadino, cristiano, oltre che riferimento per tanti sportivi non blasonati: dobbiamo educarci tutti a pensare allo sport non come dimensione di élite, ma come pratica popolare cui tutti devono avere accesso, altrimenti perderemo l’occasione di arrivare anche attraverso lo sport a portare un messaggio di libertà e una sfida di educazione in quelle periferie dalle quali, ripeto, siamo partiti tutti.
Educare allo sport e… fare sport per educare, insomma? Esatto. Credo che nei centri educativi si debba dare sempre spazio alla dimensione dello sport. Insegnare ai giovani a mettersi in gioco, gestire l’agonismo, capire cosa vuol dire giocare per vincere e al contempo saper accettare la sconfitta penso sia importante: sarebbe una grande occasione persa relegare lo sport quale attività poco proficua per la crescita della persona. In questo senso, ho in ballo una sfida con gli atleti più conosciuti al grande pubblico: sono giovani, amici, coniugi, nonostante siano in uno schermo o figurine, che acquisiscono grande responsabilità con il loro esempio, oltre la passione, la libertà e la capacità che esprimono.