Internet delle Cose per un lavoro diffuso

La nuova tecnologia permette di allargare la base occupazionale, azzerare la povertà e proteggere la classe media. Ma richiede condivisione, cura dei beni comuni e produzione diffusa. Una sfida da saper cogliere nell’incontro dei cattolici italiani a Cagliari
EPA/WU HONG

Alla quarantottesima settimana sociale dei cattolici che si terrà a Cagliari il prossimo 26-29 ottobre si discuterà de “Il lavoro che vogliamo: libero, creativo, partecipativo, solidale”.

Già il titolo è quindi una denuncia. Si reclama il lavoro e in Italia si registrano i più alti valori della disoccupazione tra i principali Paesi europei.  Per i giovani 18-24 anni i tassi arrivano a registrare punte così elevate di superare di gran lunga quelli con un’occupazione. Non solo si reclama un lavoro, ma lo si vuole qualificato, appunto: libero, creativo, partecipativo, solidale. La realtà è che spesso esso alienato, sfruttato e non dignitoso.

Grande attenzione viene posta poi al tema della tecnologia. I commenti su questo tema oscillano, come sempre è stato nella storia, tra i “tecnofiliaci” e i “tecnofobici”. Gli uni che vedono nella tecnologia una premessa ad un mondo meraviglioso, con l’argomento che ci libera dalla fatica, e gli altri come il possibile di tutti i mali, perché ci fa sprofondare nella disoccupazione alienante. Ma gli uni e gli altri sfuggono ad argomenti di realtà, pur se sono d’accordo sul fatto che è il lavoro a scomparire: per desiderio o per costrizione, a seconda dei punti di vista. Poi c’è una terza variante, consolatoria, rappresentata da coloro che “buttano il cuore oltre l’ostacolo”, che desiderano un futuro radioso, nonostante la tecnologia.

È successo già nella storia umana, quando è stata inventata la macchina a vapore e si è ripetuto con l’energia elettrica. Un tema su cui molti eminenti economisti si sono imbattuti, da Karl Marx a John Maynard Keynes, da Wassily Leontief a Robert Hilbroner, i quali sottolineavano come il desiderio di efficienza e produttività dei capitalisti si sarebbe tradotto in un’incontenibile tensione a sostituire il lavoro dell’uomo con l’automazione, lasciando sempre più persone disoccupate e prive di risorse per comprare beni e servizi.

La tecnologia non è neutrale

Oggi, di fronte all’industria 4.0 si ripropone il tema in maniera radicale. Per affrontare il tema bisogna prendere sul serio la prima legge di Melvin Kranzberg: “La tecnologia non è né buona né cattiva, ma neanche neutrale”. Niente approcci messianici o catastrofisti, ma realismo e responsabilità, perché da essa dipendono i suoi esiti. Ne sa bene qualcosa Alfred Nobel, ideatore dell’omonimo premio e inventore della dinamite.

Oggi la tecnologia della “Internet delle Cose” (IDC) è qualcosa di più dell’industria 4.0. La “Internet delle Cose” è una governance nuova che si afferma perché innanzitutto è utile, in quanto riduce il costo marginale della produzione, cioè aumenta la produttività, la molla che fa adottare le soluzioni.

Il dato nuovo è che questa produttività si può abbassare se accettiamo la condivisione all’appropriazione, la cura dei beni comuni ai beni privati, la produzione diffusa e distribuita a quella verticistica e centralizzata.

La soluzione è stata immaginata già da un utopista-politico dal nome Gandhi. La proposta la chiamò Swadeshi. L’idea era quella di “portare il lavoro alla gente e non la gente al lavoro”.

La visione del Mahatma era di riunire produzione e consumo e che tale obiettivo fosse raggiungibile solo se consumo e produzione fossero portati a livello locale. L’odierna figura del prosumer, che abita la IDC, rende realistica e attuale questo cambiamento. Infatti, lo scenario economico immaginato da Gandhi presenta analogie filosofiche con la Terza Rivoluzione Industriale caratterizzata dalle tre Internet: dell’energia rinnovabile, della comunicazione e della logistica.

Una logica collaborativa

Sappiamo, infatti, che Internet funziona e si impone grazie alla logica collaborativa e non proprietaria che la rende oggi anche utile, perché realizza guadagni di efficienza e produttività che aprono concrete possibilità ad una economia dell’abbondanza, equa e sostenibile.

Questo significa che le politiche di incentivi alla cosiddetta 4.0 vanno nella direzione sbagliata: i sussidi alla robotizzazione industriale avranno solo l’effetto di ridurre la domanda di lavoro, creando ulteriore disoccupazione e concentrazione di ricchezza in poche mani. Il contrario di quello di cui ha bisogno l’Italia, di allargare la base occupazionale, azzerare la povertà e proteggere la classe media.

Le politiche pubbliche, quindi, dovrebbero concentrarsi nella creazione di quella infrastruttura della Terza Rivoluzione Industriale, così come si fece nella creazione della rete autostradale ed elettrica nazionale nel dopoguerra. Gli investimenti dovrebbero concentrarsi su una rete wifi veloce ad accesso gratuito utilizzando i canali dell’etere lasciati dalla migrazione della televisione sul digitale, incentivando la creazione di una miriade di micro-reti di produzione di energia solare sui tetti delle case o degli edifici pubblici e nella creazione della rete nazionale di ricarica delle auto elettriche.

Se le risorse pubbliche si concentreranno nella creazione dell’infrastruttura della Internet delle Cose sarà possibile creare un’economia dal lavoro diffuso, il cui perno di funzionamento sarà la creazione di quei beni comuni di energia e comunicazione che fungeranno da piattaforma per il lavoro di produzione di ciascuno.

Chi avrebbe pensato che l’innovazione tecnica avrebbe potuto introdurci in un mondo gandhiano? Solo entrando nel reale possiamo però immaginare un lavoro che sia economicamente sostenibile, ambientalmente compatibile e socialmente dignitoso.

Il discorso avrà bisogno di “pensieri lunghi” e di scelte appropriate. L’auspicio è che Cagliari non deluda le attese.

 

 

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