Insulti a Maignan, dal calcio un richiamo alla responsabilità

La partita Udinese-Milan dello scorso 20 gennaio, con gli insulti razzisti al portiere rossonero Mike Maignan, sta diventando caso emblematico di come sia non solo giusto, ma anche possibile richiamare alle proprie responsabilità i singoli invece di generalizzare ad un intero gruppo. Una riflessione utile anche oltre lo sport.
Mike Maignan, il portiere milanista obiettivo degli insulti razzisti durante la partita Udinese-Milan del 20 gennaio 2024. ANSA / GABRIELE MENIS

Vista dal di fuori, potrebbe quasi sembrare una lamentela in stile: “Ce l’hanno tutti con noi perché siamo piccoli e (bianco)neri”: eppure quanto accaduto sabato 20 gennaio durante la partita Udinese-Milan, con gli insulti razzisti al portiere rossonero Mike Maignan, ha davvero creato un gran subbuglio nel capoluogo friulano per diverse ragioni.

Innanzitutto perché, in un primo momento, le accuse di razzismo erano state generalizzate, tanto da essere colte come accuse rivolte ai friulani tutti: di qui le prese di distanza da atti incivili dei singoli non solo del club (in cui giocano peraltro diversi calciatori non italiani) e della Curva Nord dell’Udinese, ma anche del presidente della Regione, Massimiliano Fedriga. Quest’ultimo ha parlato di «un popolo che si è sempre contraddistinto per accoglienza e rispetto» e che non può essere sottoposto «a una vergognosa gogna mediatica»; ed ha affermato che «generalizzare e mentire, tacciando l’intero Friuli di essere popolato da razzisti è inaccettabile. Anzi, è la proprio la tattica dei razzisti quella fare di tutta l’erba un fascio e di colpire nel mucchio».

Anche il sindaco di Udine, Alberto Felice De Toni, ha proposto di conferire la cittadinanza onoraria del Comune a Maignan. Numerose sono poi state le lettere e gli interventi di diverse realtà locali, sportive e non, che hanno condannato il gesto e hanno sottolineato come i friulani si dissocino da questi atteggiamenti.

Poi perché la sanzione comminata – una giornata a porte chiuse – è stata giudicata sproporzionata rispetto ad altri casi analoghi o finanche più gravi: di qui non solo la decisione dell’Udinese di fare ricorso, ma più in generale la sensazione che si usino due pesi e due misure a seconda che il club interessato sia più o meno danaroso.

La questione, però, è anche più latamente culturale. Sono in molti (tra cui lo stesso club bianconero) quelli che hanno fatto riferimento al passato da emigranti dei friulani: un passato spesso sofferto, in cui era frequente essere vittime di sfruttamento e di pesanti atteggiamenti razzisti, e da cui ci si è risollevati con lavoro e fatica. Sarebbe dunque ingeneroso, si sostiene, tacciare di razzismo un popolo che lo condanna appunto perché lo ha provato sulla propria pelle (almeno nelle precedenti generazioni). Non che in Friuli non si verifichino episodi di razzismo, beninteso, però appunto non sarebbero generalizzati…

La cosa forse più interessante, però, è che questo sta diventando un caso emblematico di come, grazie anche alle tecnologie attualmente in uso, sia possibile perseguire la linea del richiamare ciascuno alle proprie responsabilità, evitando appunto quel “nascondersi nel mucchio” a cui ha fatto riferimento Fedriga. I sistemi di sorveglianza e i video girati dai tifosi stessi hanno, infatti, permesso di identificare quattro uomini e una donna che avrebbero gridato le frasi razziste (ricordiamo che non si è trattato di cori, ma appunto di grida isolate), e che sono stati denunciati. L’Udinese Calcio ha già annunciato di averli banditi in via definitiva dal proprio stadio, mentre il primo identificato ha ricevuto dall’autorità giudiziaria un daspo di cinque anni (il massimo comminabile ai soggetti non recidivi).

Insomma, l’auspicio è che il “pasticciaccio brutto” possa portare ad una maggiore consapevolezza della necessità di assunzione di responsabilità da parte dei singoli; e non solo allo stadio ma nella vita di ogni giorno, in una Regione che da terra di emigrazione è diventata terra di immigrazione, con tutte le sfide che questo pone in termini di convivenza e i nodi irrisolti che permangono in questo campo (dall’accoglienza degli immigrati della rotta balcanica, alla delicata situazione della comunità musulmana di Monfalcone).

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