Instabilità della transizione araba

 Piccole-grandi notizie dai Paesi che tanta speranza hanno dato al mondo intero. Un percorso lungo e tortuoso
Katatni
 Per chi usa consultare diverse fonti di informazione, il mondo arabo di questi tempi è veramente una miniera senza fondo. Prendiamo la giornata del 23 gennaio, un giorno come gli altri.

 

In Libia si rifanno vivi quelli che la stampa definisce i “fedeli di Gheddafi”. Hanno riconquistato la città di Bani Walid, a duecento chilometri da Tripoli. Sorpresa? Nient’affatto. Da settimane le scaramucce o veri e propri combattimenti tra le fazioni in campo in Libia sono all’ordine del giorno. Anche chi si illudeva che la guerra avesse pacificato il Paese (e tanto meno democratizzato!) ora deve ricredersi: la complessa struttura tribale del Paese, la presenza sul terreno di enormi quantitativi di armi (fornite soprattutto dagli occidentali, via Qatar e altri Paesi intermediari) e la fragilità del governo transitorio non permettono di abbassare la guardia.

 

In Egitto le elezioni hanno dato il loro responso definitivo: maggioranza assoluta per il partito dei Fratelli musulmani, “Libertà e giustizia” (235 seggi, e il nuovo presidente del Parlamento, Mohamed Saad al-Katatny), secondo posto per i “puristi” salafiti di “al-Nour” (con 121), mentre ai partiti minori liberali sono rimaste le briciole, meno di 40 seggi ciascuno. Comincia così l’avventura al governo del Paese da parte degli “islamici moderati”, sotto lo sguardo vigile dell’esercito, in attesa delle elezioni presidenziali di marzo. La piazza per il momento sembra restare calma.

 

Nel Golfo Persico, invece, si gioca una partita per il momento solo diplomatica, con le sanzioni stabilite dall’Unione europea contro l’Iran (che non è un Paese arabo): sono state bloccate le vendite di petrolio all’estero del Paese accusato di essere vicino alla definitiva consacrazione come potenza nucleare. Ahmadinejad risponde minacciando il blocco dello stretto di Hormuz, per il quale ogni anno transitano migliaia di petroliere che portano il greggio di Iraq, Kuwait, Arabia Saudita, Bahrein, Qatar ed Emirati Arabi Uniti (tutti Paesi arabi) in giro per il pianeta. Un blocco sarebbe una catastrofe energetica ed economica per mezzo mondo, ma anche per l’Iran stesso. Curiosamente lo stretto di Hormuz è controllato, nel suo punto più stretto, da Iran e Oman, che è l’unico Paese del Golfo Persico realmente pacifico e passato assolutamente indenne attraverso la rivoluzione araba.

 

Altre notizie del giorno vengono dalla Siria, dove le rivolte iniziate 10 mesi fa non hanno portato alla caduta del regime di Assad, e non sembra che prossimamente ciò possa avvenire. Lo scenario appare sempre più complesso, e anche gli osservatori occidentali più onesti si stanno accorgendo che le visione manichee (Assad sarebbe il cattivo e i rivoltosi i buoni) non sono così semplici da applicare al Paese.

 

Infine, lo Yemen continua nella sua strana transizione, senza un nuovo governo, mentre Saleh, l’ex capo dello Stato, si fa curare negli Stati Uniti. E mentre continuano gli scontri tra fazioni rivali, con evidenti infiltrazioni qaediste. Soluzione ancora lontana.

 

Dobbiamo abituarci a queste notizie: la transizione araba non sarà breve, né incruenta. E il suo esito dipenderà in gran parte dall’attenzione che noi europei e gli occidentali in genere sapranno posare su questi Paesi, lasciando loro il tempo e le risorse necessarie per trovare la loro via alla libertà e al rispetto dei diritti umani. Via che non sarà necessariamente copia conforme alle nostre democrazie parlamentari.

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