Insieme si può

Non la reazione di un singolo, ma quella di una schiera di donne e uomini che a Ercolano risponde ai soprusi della camorra. Che con orgoglio dice no al pizzo. Nel libro La legalità del noi, edito da Città Nuova, Gianni Bianco e Giuseppe Gatti ne ripercorrono la storia.
la legalità del noi _ copertina

Cuori di pietra. Corpi di sasso. Destini di cemento. A Ercolano sanno da secoli cosa significhi. La storia lo ha scolpito nei loro geni, un disegno della sorte che vedi ancora stampato sui volti di quei lontani antenati, trasformati in sculture, un attimo fuggente di 1944 anni fa.

(…)

A guardarli, sembrano essere materia solo per studiosi dell’antichità. E invece potrebbero essere la metafora per definire quanto raccontano da anni i reportage dei cronisti e le indagini dei magistrati.

Alle falde del Vesuvio, lì dove la lava fece strage, non c’è stato bisogno di aspettare che il vulcano si risvegliasse per vedere di nuovo la vivacità economica farsi deserto, la linfa della società civile essiccarsi, lo spirito di una comunità calcificarsi.

È bastato che l’attività eruttiva delle organizzazioni criminali si mettesse in moto perché diventasse masso quanto fino ad un istante prima era animato. È stato sufficiente che le regole le imponesse il boss per pietrificare un corpo sociale in cui un tempo scorreva la vita.

A differenza di quei loro remoti parenti travolti dai lapilli del Vesuvio, a Ercolano c’è però chi è riuscito a prendersi la rivincita sulla lava eruttata dalla camorra. Nell’ultimo decennio il paese era diventato un campo di battaglia: decine di morti ammazzati per il controllo delle attività illecite di un territorio nel quale – per tradizione ormai – il bisnonno, il nonno e pure il padre lasciavano in eredità ai figli l’attività commerciale, pizzo incluso. A Pasqua, Natale e Ferragosto si pagavano anche 1.500 euro e, talvolta, non a un clan solo, ma pure a quello rivale, in una brutale par condicio che raddoppiava i soprusi. Era questo il prezzo per assicurarsi una presunta serenità, una “pace” estorta però con le pistole alla tempia e l’esplosivo davanti alla saracinesca. Il costo per riconoscere ai clan quello che per loro più aveva valore: il prestigio e il controllo del territorio, la sottomissione e il rispetto.

Giorno dopo giorno, usando lo scalpello della legalità, i commercianti hanno però scardinato la gabbia che bloccava ogni loro movimento, sono riusciti a sbarazzarsi del bozzolo marmoreo che li avvolgeva, librandosi nel cielo della libertà.

È uno dei miracoli “civili” dell’Italia di oggi. Ercolano ti dà oggi il benvenuto definendosi «territorio derackettizzato», prima città del sud Italia nel quale il pizzo è dichiarato fuorilegge, messo al bando come lo sono, altrove, i frutti amari del progresso: il nucleare o gli ogm. Il percorso è stato lungo, il coraggio tanto, il sostegno della società civile sulle prime timido, in una terra in cui chi si ribella finisce nella migliore delle ipotesi all’indice e, nella peggiore, al camposanto.

Ma poi ci sono stati il panettiere e il pasticciere, quindi il macellaio, il meccanico, il gioielliere e pure il benzinaio. Ed è proprio quest’ultimo, Antonio (l’uomo che distribuiva carburante sulla via panoramica), ad aver fornito la più commovente adesione a quel programma di liberazione civile. Da lui pretendevano soldi che non aveva, i 40 euro che aveva in cassa erano troppo pochi per loro. Una miseria. Con disprezzo glieli buttarono in una pozzanghera, costringendolo a piegarsi e a raccoglierli nel fango. Quando poi tornarono alla carica con ben altre pretese, lui non sapeva davvero dove andare a prendere altri denari. Disperato, si ricordò però di quei 400 euro messi da parte, un centesimo dopo l’altro, rinunciando a caffè e sigarette. Piccoli sacrifici sopportati per un grande regalo. Si era impegnato a comprare un giubbotto di pelle alla figlia disabile. A lei che, nel giorno stabilito, aspettava solo di andare a fare l’acquisto tanto atteso, Antonio disse che era stato costretto a destinarli a una spesa improvvisa. «Papà ha comprato le tasse al governo – si giustificò –, non te lo posso comprare. L’unica cosa che ti posso dare adesso è un abbraccio, un po’ d’affetto, un po’ d’amore. Niente più». Un’umiliazione troppo forte per quel padre premuroso che troverà però l’orgoglio di denunciare tutto nell’aula del processo, lì dove ad essere impauriti saranno invece i suoi aguzzini.

È stato così che, uno dopo l’altro, decine di commercianti (con le donne in prima fila) hanno messo sulle loro vetrine un avviso: «noi non subiamo soprusi». Frase nella quale (a farne l’analisi logica “mafiosa”) la parola più eversiva, la sfida più sfrontata lanciata all’Onorata Società non è tanto la promessa ribellione ai “soprusi subiti”, quanto, piuttosto, quella prima persona plurale piazzata all’inizio del periodo: quel “noi”. Tre lettere, due vocali, per un solo messaggio dirompente: siamo più d’uno, ci sosterremo a vicenda. Dunque, fate attenzione: questa volta ce la facciamo davvero.

È stata proprio la coscienza di essere diventati un “noi” (e cioè la consapevolezza di non essere soli, di poter opporre alla violenza della sopraffazione la logica dell’inclusione) ad aver dato forza e sostanza a quella e ad altre ribellioni.

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Ed è proprio con questo gioco di squadra che si è scritto il primo paragrafo di una nuova storia, culminata nel processo nel quale, per la prima volta, nessuno si è tirato indietro e i testimoni, pronti a raccontare le violenze subite, erano più numerosi degli imputati alla sbarra che le avevano commesse.

Quarantadue contro quarantuno. Una sfida finalmente alla pari che però non è finita in pareggio.

Il processo è terminato nel febbraio del 2013 con venti condanne e quasi duecento anni di carcere complessivi inflitti agli imputati, una sentenza storica pronunciata nell’aula 116 del Palazzo di Giustizia di Napoli gremita di folla, tra cui tanti dei commercianti e imprenditori che avevano osato sfidare i clan.

Frattanto, negli atti del processo, finiva pure la testimonianza di uno degli estorsori divenuto collaboratore di giustizia, costretto ad ammettere che, quando sulle vetrine dei negozi vedevano quei cartelli che proclamavano il rifiuto di pagare il pizzo, loro “passavano oltre”. Si erano convinti che quelle botteghe non andassero toccate, rassegnati all’idea che da lì avrebbero avuto solo rogne, l’annuncio di una denuncia pressoché sicura.

E quando il tenente Di Florio andò via da Ercolano perché promosso capitano, il senso più profondo di quanto vissuto lo scriverà in una lettera Raffaella Ottaviano, la donna che con la sua prima denuncia aveva invertito il senso di marcia della storia. «La sua presenza rassicurante – diceva con riconoscenza all’ufficiale dell’Arma – ci ha consentito, pian piano, di crescere come cittadini e come operatori economici» e di acquisire «la consapevolezza di dover agire contro le ingiustizie della camorra per noi stessi, per la nostra famiglia, per la nostra collettività cittadina. Consapevolezza di non essere più soli, di avere ormai vicini tutte le forze dell’ordine, le istituzioni cittadine, le associazioni di commercianti e professionali, in un unico sistema capace di controbattere le nefandezze della camorra».

Incredibile a dirsi, in una terra in cui si pensava che l’omertà facesse parte del paesaggio quanto il profilo sinuoso e inquietante del Vesuvio.

Dal libro La legalità del noi, le mafie si sconfiggono solo insieme, di Gianni Bianco e Giuseppe Gatti (Città Nuova, 2013).

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