Insieme per prevenire e combattere le dipendenze da gioco d’azzardo

Il fenomeno riflette lo spaesamento di una società che ha bisogno della “fraternità” per potersi governare con giustizia. Intervista allo psicoterapeuta Claudio Dalpiaz
bar slot
Un limite evidente quando si parla dell’azzardo è quello di ridurlo ad una condizione patologica che riguarda solo una fascia limitata e fragile della popolazione senza intravvederne, invece, nella sua diffusione endemica, il volto autodistruttivo della società. È da questa prospettiva che nasce il dialogo aperto con Claudio Dalpiaz, psicologo e psicoterapeuta trentino, socio fondatore e presidente di Psy+onlus, organizzazione dedita alla diffusione di buone pratiche in psicologia, cooperazione e solidarietà sociale. Dalpiaz, fortemente attivo nella campagna “Mettiamoci in gioco”, è,tra l’altro, responsabile per l’area Sud, del “progetto Orthos – studio e trattamento delle dipendenze patologiche", dedicato prevalentemente ai giocatori d'azzardo problematici e patologici, diretto da Riccardo Zerbetto. La ricerca del dialogo e dell’approfondimento nasce non quando esiste uniformità di vedute, ma come traccia di una esigente ricerca comune che nasce dall’impegno condiviso.

 

Come nasce il suo interesse per una patologia finora considerata marginale?

«Le varie forme della dipendenza sono state il mio oggetto di interesse principale fin da quando nel 1997 ho avuto la fortuna di svolgere il mio tirocinio presso l’azienda ospedaliera di Reggio Emilia, e di lavorare fianco a fianco con Umberto Nizzoli, Roberto Bosi, Riccardo Zerbetto. Da subito, ho allargato il focus dalle dipendenze classiche (alcool, stupefacenti, …) alle nuove forme emergenti (sesso, azzardo, internet, …) riscontrando sistematiche corrispondenze e spesso fenomeni di “shifting”, cioè di passaggi da una dipendenza all’altra: mi oriento quindi alla persona che ha vissuto esperienze “condizionanti”, che presenta vulnerabilità pregresse, o che è portatrice di una personalità incline alla dipendenza, indipendentemente dalla forma in cui questa dipendenza si manifesta».

 

Cosa rivela l'invasione dell'azzardo nella nostra società?

«Il manifestarsi del pensiero magico, dell’illusione di controllo, è spesso il contraltare di condizioni di impotenza appresa: se consideriamo improbabile che le nostre richieste vengano ascoltate, che il nostro impegno venga premiato, la reazione può essere quella di affidarsi al caso, oppure di crederci capaci di influenzare eventi incontrollabili. In questi ultimi trent’anni è stata veicolata impotenza, dalla competenza si è passati alla fortuna, dall’impegno al caso, dalla conoscenza alle “conoscenze”. Una via per riscattarsi non c’è, ed allora l’azzardo, come illusione e/o come ipnotico/antidepressivo funziona. Bisogna riaprire i giochi, quelli veri, dare respiro al merito. Abbandonare slot e grattini e ritornare a “scommettere” su se stessi, sulle relazioni».

 

Quale è il vostro metodo per affrontare la malattia del gioco d’azzardo patologico?

«Con Riccardo Zerbetto e l’équipe del “progetto Orthos” lavoriamo secondo una metodologia umanistica-esistenziale che integra i principi della psicoterapia della Gestalt con apporti di natura sistemico-relazionale, psicoanalitica, cognitivista. La psicoterapia intensiva residenziale breve mira innanzitutto a restituire consapevolezza, responsabilità, senso della prospettiva. Spesso mi ritrovo a definire il nostro intervento come “rianimazione psicologica”: la dipendenza si struttura spesso come una forma di “evitamento”, cioè di perdita di contatto con condizioni esistenziali disturbanti e dobbiamo innanzitutto imparare a saper stare davanti allo specchio (la psicoterapia in gruppo, in questo senso, dispiega tutta la sua efficacia)».

 

Di solito, quando si invoca la necessità della formazione dei giovani, si palesa il fallimento degli adulti. Non è forse questa fascia di età ad essere colonizzata profondamente nel suo immaginario in questi anni? Come ci si può disintossicare?

«Restituendo potere, responsabilità, ricostruendo appartenenza, partecipazione. Per anni si è sostenuta la causa dell’essere nel posto giusto al momento giusto, del conoscere le persone giuste, dello scegliere il pacco “fortunato”. Ora è tempo di ritornare a premiare il merito, la curiosità, la fatica, l’impegno, e la capacità di “fare insieme”, di condividere. Credo che socialità sia la parola chiave. Insieme a fraternità: “Liberté” e “Egalité” fanno a botte da tempo, e a farne le spese è stata “Fraternité”. Abbiamo fatto esperienza sia dell’egualitarismo coercitivo, sia del liberismo irresponsabile. Credo sia tempo per immaginare una socialità che si fondi in primo luogo sulla “Fraternité”, che nel motto della Rivoluzione francese veniva per ultima, ma che in fondo può essere la ragione emotiva fondante sia per la libertà sia per l’uguaglianza».

 

I critici più implacabili del cosiddetto movimento contro la diffusione dell’azzardo contestano i numeri della patologia, che sarebbero presunti e ingigantiti per aumentare le provvidenze della spesa sanitaria destinata alle case di cura. Come risponde?

«Rispondo che anzi, probabilmente siamo invece di fronte ad un fenomeno sottostimato. La consapevolezza di malattia e la richiesta di aiuto si manifestano in genere dopo anni di problematicità sotto soglia, dopo ripetuti tentativi di autogestione fallimentari. I pazienti che quotidianamente vediamo sono la punta dell’iceberg. Il gioco online, anche attraverso proxy server che permettono di giocare su siti stranieri proibiti, è difficilmente quantificabile ed abbiamo ragioni per credere che nei prossimi anni le patologie connesse aumentino ancora. Con Psy+ Onlus stiamo concludendo un’indagine esplorativa sulle modalità di gioco fra gli immigrati residenti nel comune di Roma: dalle esperienze dei paesi anglosassoni sappiamo che chi espatria (soprattutto se in condizioni di bisogno) vive fattori di rischio supplementari rispetto alla popolazione generale ed il fenomeno della dipendenza rimane spesso invisibile perché nei servizi pubblici raramente sono presenti mediatori culturali e linguistici in grado di facilitare l’accesso alle cure».

 

Non sarebbe ragionevole far ritirare tutte le slot dai bar e dai luoghi pubblici?

«Oggi, di deroga in deroga, il gioco d’azzardo è stato sostanzialmente sdoganato. Ha allagato ogni interstizio della vita sociale. Dalle slot nei bar, ai gratta e vinci negli autogrill. Dalle lotterie istantanee nei tabaccai alla possibilità di “giocarsi” il resto in alcuni supermercati. Il confinamento territoriale dell’azzardo è uno dei primi strumenti disponibili per arginare un fenomeno dilagante, fuori controllo. “Svezzare” baristi, tabaccai ed esercenti vari dal “doping” dell’azzardo non sarà facile: oggi i proventi che ne derivano sono percepiti (spesso a ragione) come “vitali” per la sopravvivenza dell’attività commerciale stessa. Ma a questo si è arrivati a causa di politiche dissennate che hanno favorito queste forme di “ossigenzione artificiale”. I bar dovrebbero esistere e prosperare come bar. Le tabaccherie come rivendite di beni/servizi dei monopoli (forse più spesso associati, come un tempo, all’attività di edicola). Se tutti smettessero di fumare, oggi avremmo delle tabaccherie che conservano questo nome, ma che di fatto sono dei mini casinò. Per questo, anche un po’ provocatoriamente, sto immaginando le nostre città “bonificate” da ogni forma di azzardo e delle “gambling towns” dove chi vuole si può recare appositamente per giocare d’azzardo. Sarebbero degli spazi più facilmente controllabili dalle amministrazioni, dalla guardia di finanza, più difficili da infiltrare anche per le mafie. In questi spazi, si potrebbero imporre dei servizi di monitoraggio, dei punti di ascolto e una tessera di ingresso al fine di contenere per quanto possibile le prevedibili manifestazioni di discontrollo e di dipendenza».

 

Eppure la marginalità e tolleranza delle sex city, slot city, ecc, non rappresenta, in fondo, un invito all'indifferenza?

«Non sono mai stato proibizionista nemmeno in materia di sostanze e per quanto riguarda i comportamenti, dal mio punto di vista, vale altrettanto. Credo che tuttavia sia necessario fare uno sforzo di ridefinizione dei contesti: i comportamenti hanno infatti un senso in relazione al contesto in cui si dispiegano ed alle motivazioni che li sostengono. Oggi è legittimo divertirsi a sparare, ma vista la pericolosità della cosa ciò è vero soltanto nel contesto dei poligoni di tiro, con le autorizzazioni e il monitoraggio necessari. Immaginare contesti adeguati per consentire a chiunque di accedere a comportamenti potenzialmente rischiosi/dannosi minimizzando i rischi e lo sviluppo di criminalità e patologia è esattamente il contrario dell’indifferenza. Oggi le nostre metropoli sono di fatto pervase di bordelli, di luoghi di spaccio, di mini-casinò. Prenderne atto e immaginare delle forme di confinamento (i baccanali lo prevedevano in termini temporali, ma potremmo pensarli anche in termini spaziali) può essere un modo per avere cura di fenomeni che di per sé tendono all’ingovernabilità».

 

Quali reali possibilità si hanno di poter incidere sulla realtà davanti al potere delle lobby (ad esempio la difficile imposizione del divieto di pubblicità) e alle minacce della malavita?

«La patologia (soggettiva e sociale) con cui ci stiamo confrontando ha radici profonde, ha raggiunto le attuali condizioni di insostenibilità in un arco di tempo significativo. Incidere da subito si può, attraverso politiche coraggiose e forse in un primo tempo impopolari. La campagna “Mettiamoci in gioco” sta da tempo proponendo alle amministrazioni 14 punti su cui concentrare l’attenzione e numerose altre iniziative popolari (fra le quali Slot Mob e Senza Slot) fanno fronte comune per sostenere il cambiamento.

Si tratta però di un cambiamento culturale profondo, di un’adultizzazione collettiva, dello sviluppo di un senso di responsabilità sociale (le aziende che inquinano l’ambiente pagano per i loro danni, ma se ad essere inquinate sono le menti?) e della ricostruzione di condizioni di sostenibilità (in tempi di crisi è ancora più agghiacciante constatare che l’azzardo rappresenta il 12 per cento della spesa delle famiglie italiane!). Sarà lunga, ma credo fortemente nella possibilità di produrre da subito cambiamenti importanti attraverso l’educazione terminologica dei media (no “ludopatia” ma “gioco d’azzardo patologico”), attraverso la mobilitazione costante di reti sociali che mantengono vivo il monitoraggio, il dibattito, e soprattutto attraverso il sostegno a contesti di socialità alternativi, possibilmente tra generazioni diverse di età. Spazi sociali a libero accesso dove si possa condividere cultura (biblioteche), ma anche gioco (giochi di competenza o ricreativi senza lucro) e manifestazioni artistiche. Non le grandi opere, ma centri sociali di quartiere, che siano laboratori di co-costruzione, palestre di partecipazione».

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