Fare insieme la strada dialogando
La parola di origine greca “sinodo” significa letteralmente: “[fare] insieme la stessa strada”. Vorrei qui soffermarmi innanzi tutto sulla parola “insieme” (in greco: syn). Cosa significa per una comunità cristiana?
Con i social media siamo oggi in grado tecnicamente di gettare una bottiglia, con dentro un messaggio di testo, nel “mare nostrum” del web. La novità sta nel fatto che può essere letto simultaneamente da un gran numero di persone, anche sconosciute. La velocità e la quantità di questi messaggi, tuttavia, ci portano sempre più spesso a reagire – come nei giochi gladiatori ai tempi dei romani – con un solo tasto: pollice all’insù o all’ingiù. Questa logica “binaria” non lascia spazio a una interpretazione argomentata. Più ancora: le scelte così operate non corrispondono automaticamente al vero o al falso, ma piuttosto al «mi piace» (like) o «non mi piace» (unlike).
Siamo sicuri però che è sempre vero ciò che piace e falso ciò che non piace? Dinnanzi a un dibattito, siamo certi di poterci avvicinare alla verità lasciandoci calamitare dalle opinioni “piacevoli”?
Come ha scritto argutamente Fabio Ciardi: «All’imperante e popolare “mi piace, non mi piace” potremmo imparare a sostituire altre parole come argomentare e sviluppare l’arte dei perché, proprio come fanno i bambini quando si sviluppa l’intelligenza e, a modo loro, vogliono investigare, entrare dentro le cose. Si tratta di pesare i pro e i contro, di ascoltare le ragioni di chi la pensa diversamente»1.
In riferimento alla sinodalità, si tratta dunque di scoprire se è possibile superare la rigida logica “duale” – come amava ripetere su queste pagine Silvano Cola2 – attraverso il riconoscimento della presenza di un “Terzo” che precede e affianca gli eventuali compagni in viaggio sulla stessa strada (cf. Lc 24, 13-35). Questa condizione di possibilità appare l’unica a garantire l’unità dei distinti e a evitare che il camminare insieme degeneri in uniformismo. L’esperienza che sembra più di altre condurci a questa scoperta è quella che nella tradizione filosofica e culturale occidentale chiamiamo dialogo. In modo schematico, proverò in questo mio contributo a ripensare tale concetto di dialogo alla luce della rivelazione trinitaria, delineando alcune delle sue caratteristiche.
1. Creati ad immagine di Dio, siamo fatti per dialogare
Il dialogo è inscritto nella vita di Dio Uno e Trino e quindi dell’essere umano creato a sua immagine. È bene ricordarci sempre che il dialogo ha la sua radice ultima in Dio: ci viene offerto anzitutto da Dio che è uno e trino. Dio si è rivelato nel dialogo perché è dialogo in se stesso. È il Padre ad aver iniziato a dialogare con noi mediante Gesù nello Spirito Santo. «Bisogna che noi abbiamo sempre presente questo ineffabile e realissimo rapporto dialogico, – scriveva Paolo VI nella sua prima enciclica Ecclesiam suam (ES) – offerto e stabilito con noi da Dio Padre, mediante Cristo, nello Spirito Santo, per comprendere quale rapporto noi, cioè la Chiesa, dobbiamo cercare d’instaurare e di promuovere con l’umanità» (ES 73).
2. Il dialogo è possibile
solo tra persone autentiche
I piani su cui si muove il dialogo sono di tipo verbale (linguaggio, lessico, parola scritta); di tipo paraverbale (tono della voce, volume, ritmo, quantità di parlato, sottolineature, pause, esitazioni); di tipo non verbale (uso del corpo, sguardo, mimica facciale, distanza fra gli interlocutori, postura, gesti). Questi piani possono essere tra loro coerenti o incoerenti, semplici o complessi, e i partner credibili o non autorevoli, autentici o ingannevoli. La contraddizione tra i vari livelli provoca un finto dialogo che si corrompe presto in ipocrisia, incomprensione e, infine, nel rifiuto.
Sebbene il dialogo unisca verità e carità, intelligenza e amore, prima della verità del contenuto che si comunica, vi è l’autenticità della persona che comunica. In altre parole, il messaggio cristiano non è solo “informativo”, ma “performativo”. Ciò significa, ad esempio, che «il Vangelo – spiega Benedetto XVI – non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita»3.
Per evitare di interiorizzare la “maschera” che impongono il conformismo linguistico e il pensiero unico, la “persona” autentica non sceglie nel dialogo le scorciatoie dell’opportunismo. L’autenticità è, infatti, il contrario della “corruzione”, un male – ribadisce Papa Francesco – «più grande del peccato»4. È piuttosto l’amore disinteressato a renderci persone autentiche. «Il dialogo della salvezza – ricordava Paolo VI – partì dalla carità, dalla bontà divina: Dio ha talmente amato il mondo da dare il suo Figliuolo unigenito; non altro che amore fervente e disinteressato dovrà muovere il nostro [dialogo]» (ES 75).
3. Il dialogo non discrimina
Nessuno dovrebbe essere discriminato per ciò che dice. Si può, infatti, arrivare anche a combattere le idee di chi parla, senza disprezzarne la persona, a qualunque popolo, religione, nazionalità appartenga. È importante quindi mettere bene a fuoco il “volto” di chi ci sta di fronte e riconoscere che lui/lei è un “altro-me”.
Un segno eloquente e inequivocabile di questo atteggiamento è senza dubbio il cammino che la donna e l’uomo sono chiamati a compiere nella Chiesa e nella società. «Le donne – ha detto profeticamente Papa Francesco – sono impegnate, spesso più degli uomini, a livello di “dialogo della vita” […]. Ciò significa che il contributo delle donne non va limitato ad argomenti “femminili” o ad incontri fra sole donne. Il dialogo è un cammino che la donna e l’uomo devono compiere insieme. […] La donna, possedendo caratteristiche peculiari, può offrire un importante apporto al dialogo con la sua capacità di ascoltare, di accogliere e di aprirsi generosamente agli altri»5.
4. Il dialogo richiede
silenzio e ascolto
Il dialogo non è riducibile al dibattito dove ciascuno dichiara la propria opinione, anche gridando e insultando, senza credere veramente che ascoltare fino in fondo l’altro sia la via per conoscere la verità su noi stessi o su chi o cosa ci circonda. Nel 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi, Papa Francesco ha detto: «Una Chiesa sinodale è una Chiesa dell’ascolto, nella consapevolezza che ascoltare “è più che sentire” [Evangelii gaudium (EG), 171]. È un ascolto reciproco in cui ciascuno ha qualcosa da imparare»6. Ascoltare non significa quindi semplicemente restare in silenzio e osservare passivamente chi ci sta di fronte. Tenendo solamente la bocca chiusa, finiremmo col parlare inevitabilmente… con noi stessi! E poiché la mente non sta mai ferma, sul momento tendiamo a produrre pensieri-risposta e a deporli nella faretra della memoria, pronti, una volta raggiunta la soglia personale di sopportazione, a scaricarli sul nostro interlocutore. In realtà, così facendo, avremmo solo avvolto “mummificandolo” lo sfortunato partner del dialogo con i nostri pre-giudizi. Per Adriano Moreira, ex ministro e deputato portoghese oltreché famoso docente universitario, questo è esattamente ciò che rifugge Papa Francesco che ascolta perfino quando parla e sa bene che solo in questo modo «il potere della parola può vincere la parola del potere»7.
5. Dialogare è «narrarsi»
Il dialogo non è, dunque, costituito anzitutto da parole o da pensieri, ma dal dono di se stessi, di qualcosa che inerisce all’intimo delle persone. Nel dialogo – come ebbe a dire Jesús Morán a Mumbai – ciascuno è reso se stesso dal “dono” dell’altro. Rivelarci all’altro è donare noi stessi, è condividere i nostri sentimenti, i nostri bisogni, i nostri progetti8.
Come avviene nella Bibbia, è necessario che il dialogo assuma la forma personale della narrazione. Quando infatti partecipiamo ed esprimiamo ciò che in noi vi è di più unico e personale, parliamo agli altri nel modo più profondo. L’unico modo per comunicare a questo livello è evitare il linguaggio verbale impersonale. Disseminare così il dialogo di esperienze personali porta gli interlocutori a prendere posizione: a giocare “a carte scoperte” oppure a “nascondersi” (cf. Gen 3, 10). Quest’ultima opzione genera discorsi generalisti o luoghi comuni che sfiorano, se non addirittura feriscono, le anime con le semplici parole, divenute “lettere morte”, “pietre” (cf. Gv 8, 7).
Il linguaggio narrativo è invece non solo performativo, ma pre-formativo9, cioè capace di ispirare una prassi alternativa, più creativa, che predispone al cambiamento dello stile, delle abitudini e delle espressioni sociali. Ciò permette agli altri di cogliere al meglio la nostra visione del mondo, aprendoci reciprocamente alle realtà presenti in noi e negli altri ed evitando così di rifugiarci nel “già dato”, negli stereotipi.
Sinceramente, tutto questo è molto faticoso, ma chi accetta la scomoda “realtà” dell’altro, acquista anche più rispetto per sé e per la complessità dei processi della vita reale (e non solo virtuale!). Sebbene contraddicano talvolta le nostre convinzioni, i “fatti” che si narrano sono sempre amici preziosi nel dialogo perché ci avvicinano alla verità. E poi, lo sappiamo: Contra factum non valet argumentum! Alla prova dei fatti, non regge altra argomentazione se non quella nata dai fatti stessi e che ci spinge a vivere bene. Ecco allora che tentare di raccontare i propri vissuti esistenziali lasciando trasparire il senso metastorico positivo profondo e aperto che li attraversa, è l’humus fecondo di qualsiasi dialogo.
6. Dialogare è fare spazio
Se udire è da una parte afferrare i suoni e farmi raggiungere da essi e dall’altra raccogliere informazioni e vedere cosa mi succede al fine di trarne vantaggio; ascoltare richiede invece attenzione non solo a ciò che mi dici, ma soprattutto a ciò che sei tu e a ciò che noi siamo l’uno per l’altro. È un appello a “fare spazio” dentro il nostro microcosmo interiore per accogliere l’altro come ospite al quale concedere, a fondo perduto, un anticipo di fiducia. Quanto bisogno abbiamo oggi di questi “fondi finanziari” personalizzati, basati non sull’economia delle cose, ma delle persone! L’invito di Papa Francesco a toglierci «i sandali davanti alla terra sacra dell’altro» (cf. Es 3,5) non è affatto eccessivo! «Dobbiamo dare al nostro cammino – esorta il Papa – il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare» (EG 169).
Un buon esercizio per iniziare a esercitarsi in questa arte del “fare spazio” all’A/altro come “ospite dall’anima”, potrebbe essere – sull’esempio di Maria di Betania (cf. Lc 10, 38-42) – quello di non interrompersi a vicenda, leggendo negli occhi di chi parla, con un atteggiamento attivo in grado di percepire i sentimenti altrui senza negarli o minimizzarli. In una parola: mostrare interesse, attenzione e pazienza fino ad avere «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli – scrive San Paolo ai Filippesi 2, 5-7 –, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso (= fece spazio!) assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini».
7. Dialogare richiede volontà forte e mite prudenza
Per dialogare occorre, dunque, mettersi nei panni di chi sta cercando sinceramente di comunicare la verità di se stesso attraverso silenzi, gesti e parole che non esauriscono il mistero che abita ciascuno di noi. Non c’è da farsi illusioni: non è così facile capire effettivamente – come vogliono invece farci credere la real tv o i social media – il punto di vista dell’altro o decifrare il linguaggio del suo corpo senza ostinarsi a difendere il proprio pensiero unico. È invece l’amore per la verità che ci spinge a cercarla e a volerla. Per questo il dialogo non è una moda passeggera o l’optional scelto da donne e uomini radical chic che esprimono un particolare orientamento culturale o spirituale. Senza dialogo non c’è futuro per nessuno, solo dissonanze e, nel caso peggiore, guerre. Il dialogo richiede pertanto una forte volontà di guardare avanti oltre ogni pessimismo o disfattismo, perché è frutto della decisione libera e coraggiosa di compromettersi senza clausole o riserve, perseverando sulla via del bene, aperta al perdono e sostenuta dalla mite prudenza pedagogica. «La prudenza pedagogica – consiglia Paolo VI – fa grande conto delle condizioni psicologiche e morali di chi ascolta: se bambino, se incolto, se impreparato, se diffidente, se ostile; e si studia di conoscere la sensibilità di lui, e di modificare, ragionevolmente, se stesso e le forme della propria presentazione per non essergli ingrato e incomprensibile» (ES 84).
8. Dialogare è costruire insieme i «significati»
Come tra “stranieri”, il dialogo è un punto di arrivo, non un punto di partenza. Per questo è necessario pazientemente lavorare insieme nel costruire una base comune di comprensione e condivisione fatta di frequentazione e rispetto in cui deve essere chiaro a tutti che il tempo è superiore allo spazio10.
Come nell’amore tra un uomo e una donna, che sognano di costruire una casa comune, è indispensabile imparare i codici del linguaggio dell’altro, così nel dialogo è altrettanto importante imparare non solo la “lingua” dell’altro, ma decodificare “i significati” contenuti nel suo linguaggio. Ad esempio, se una donna dice “fedeltà”, “matrimonio”, “patrimonio”, “amore”, “casa”, “figli”, “lavoro”, “Dio”, ecc., siamo davvero certi che l’uomo darà a queste parole lo stesso significato?
Così avviene nel dialogo tra due o più persone. È importante avere pazienza nel “costruire” i significati, trovando le parole più adatte per esprimere adeguatamente quello che è stato fino ad allora partecipato. Magari coniando parole nuove, forzando il bagaglio culturale di origine per lasciarsi contaminare da prospettive diverse, senza scadere nell’uniformità o, peggio, nel relativismo. Quando in una confessione religiosa, in una Chiesa diocesana, in una associazione o comunità politica si sclerotizza il dizionario in uso tra i membri, significa che si pratica poco il dialogo vero, quello cioè che si realizza con chi è effettivamente “altro-da-noi”.
Non va dimenticato che il racconto simbolico della costruzione della città e della torre di Babele (cf. Gn 11, 1-9) ci mette in guardia dal pericolo di fraintendere quando lo si contrappone all’evento della Pentecoste nel quale ci sarebbe stata invece l’unità delle lingue. Ma di quale unità si tratta? È forse la pluralità un ostacolo all’unità? Osserva Papa Francesco «Chi fa le differenze? Lo Spirito Santo: è il Maestro delle differenze! E chi fa l’unità? Lo Spirito Santo: Lui è anche il maestro dell’unità! Quel grande Artista, quel grande Maestro dell’unità nelle differenze è lo Spirito Santo»11.
9. Il dialogo ha una regola fondamentale: la reciprocità
L’autenticità, l’ascolto, l’autonarrazione, il dilatare la propria interiorità per renderla ospitale, la volontà decisa e la mite prudenza, il comporre sinfonicamente nuovi toni con le parole, rappresentano le caratteristiche, le proprietà, le qualità che generano lo “stile” dialogico che Gesù ha portato sulla terra. Ma vi sono “regole” cui attenersi per essere sicuri di essere in questo dialogo? A nulla varrebbe quanto detto finora se non ci si attenesse alla legge fondamentale senza la quale avremmo solo noiosi monologhi: la reciprocità. Se amare il prossimo come noi stessi richiede l’iniziativa unilaterale, affinché ci sia dialogo occorre che si renda esplicita sin dall’inizio la volontà di rispondere in coscienza all’appello dell’altro, all’appello che è l’altro. Se la misericordia di Dio si manifesta nella storia a prescindere dalla nostra risposta positiva o negativa, in maniera quindi incondizionata, il dialogo richiede la presa in carico gli uni degli altri, con tutto ciò che comporta. Lo scopo resta sempre quello di camminare pacificamente sulla stessa strada che è il mondo, in compagnia dei nostri simili e, soprattutto, di quel “terzo” che si rivela in pienezza proprio “nella” reciprocità. «Chiediamo al Signore – insieme a Papa Francesco – che ci faccia comprendere la legge dell’amore. Che buona cosa è avere questa legge! Quanto ci fa bene amarci gli uni gli altri al di là di tutto! Sì, al di là di tutto!» (EG 101).
Vincenzo Di Pilato
1) F. Ciardi, Mi piace, non mi piace, in «Città Nuova» 61 (2017) n. 4, pp. 8-9.
2) Cf. S. Cola, Nuovi orizzonti per la teologia e la pastorale, in «Gen’s» 28 (1998/3-4) pp. 68-73.
3) Benedetto XVI, Spe salvi, n. 2.
4) Francesco, Discorso alla delegazione dell’Asso-
ciazione internazionale di diritto penale, 23 ottobre 2014.
5) Francesco, Discorso ai partecipanti alla Plenaria del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, 9 giugno 2017.
6) Francesco, Discorso nella commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi, 17 ottobre 2015.
7) D. Pinto, Intervista al prof. Adriano Moreira: “Misericórdia é Amor ao Próximo”, 1 dicembre 2016, in «Radio Vaticana» (http://pt.radiovaticana.va/news/2016/12/01/prof_adriano_moreira_miseric%C3%B3rdia_%C3%A9_amor_ao_pr%C3%B3ximo%E2%80%9D/1276074)
8) Cf. J. Morán, Aspetti antropologici del dialogo, Mumbai, 5 febbraio 2016.
9) Cf. G. Le Mura, Comunicare: dal cuore alle mani. Prassi e cultura della reciprocità, Paoline, Milano 1999, p. 122.
10) «Questo principio – spiega Papa Francesco – permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo» (EG 223).
11) Francesco, Incontro con i sacerdoti e i consacrati della diocesi di Milano, 25 marzo 2017.