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La tavoletta lignea conservata nella basilica romana di Santa Croce in Gerusalemme è davvero l'iscrizione posta sulla croce di Gesù?
Santa croce in Gerusalemme

Per Elena, l’anziana madre dell’imperatore Costantino, che aveva affrontato le fatiche di un pellegrinaggio fino a Gerusalemme per riportare alla luce i luoghi della passione di Cristo cancellati dal paganesimo, la data del 14 settembre 325 significò il coronamento di un sogno. Quel giorno infatti, mentre erano in corso i lavori per erigere una chiesa sul sito del Santo Sepolcro, da un’antica cisterna erano affiorati i legni di tre croci, alcuni chiodi e una tabella recante l’iscrizione trilingue "Gesù di Nazaret, re dei giudei". L’episodio, riferito da autorevoli storici cristiani del IV e V secolo, è confermato anche da Ambrogio vescovo di Milano.

 

Nulla da stupirsi che dopo quasi tre secoli siano sopravvissuti reperti del genere, considerata la proprietà del legno di conservarsi nel fango. Plausibile anche l’identificazione della croce di Cristo: se non altro per i segni dei chiodi sui pali. Sappiamo infatti che solo Gesù venne inchiodato, mentre per i due "ladroni" si seguì la procedura più normale di legarli con corde. Ma perché quelle croci non vennero riutilizzate e furono invece sepolte nelle vicinanze della tomba di Cristo? Anche qui, se si pensa che il contatto con un oggetto impuro (e tanto più il legno insanguinato di un patibolo) contaminava l’ebreo credente, non appare strano che alla vigilia di Pasqua, le croci venissero rimosse e sepolte fuori delle mura.

 

Ed ora vediamo quale sorte toccò alle reliquie. Per volere dell’imperatrice esse vennero divise in tre parti: una per la Città Santa; un’altra per suo figlio a Nicomedia; la terza, più consistente, la destinò alla cappella del "Sessorium", la sua residenza romana, insieme ai chiodi e ad alcune casse di terra del Golgota, quasi per ricrear lì un secondo "monte". Anche il titolo della croce venne diviso: a Roma la metà che recava l’iscrizione I. NAZARINUS R, a Gerusalemme l’altra parte su cui era scritto (R)EX IUDAEORUM. Quest’ultima fu vista da numerosi testimoni, tra cui la famosa pellegrina Egeria o Eteria.

Le reliquie gerosolimitane subirono lungo i secoli varie traversie: in parte perdute, in parte andarono ad arricchire, ridotte in minutissimi pezzi, chiese e monasteri d’Europa.

 

Quelle invece portate a Roma sono pervenute in buona parte fino a noi, custodite nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme che fu eretta sopra le rovine del “Sessorium”: si tratta di un modesto frammento della croce, di un chiodo e di ciò che restava del titulus o iscrizione.

 

E appunto su quest’ultima vogliamo ora soffermarci: ce ne dà occasione un appassionante (e controverso) studio divulgativo del giornalista tedesco Michael Hesemann (1). Ritenuta dispersa in qualche momento della travagliata storia dell’Urbe, la preziosa tavoletta venne ritrovata il 1° febbraio 1492, durante i lavori di restauro della cappella dedicata a sant’Elena nell’antica basilica sessoriana. È in legno di noce mediterraneo e reca tracce dell’originaria verniciatura per rendere meglio visibile la motivazione della condanna, resa nota dal quarto Vangelo: «"Gesù il Nazareno, il re dei giudei"… in ebraico, in latino e in greco».

 

In realtà qui la successione delle lingue è diversa: all’ebraico segue il greco e infine il latino. Ma ciò costituirebbe piuttosto un motivo a favore della autenticità della tabella: un falsario, infatti, avrebbe seguito pari pari il testo sacro. Inoltre anche nelle due ultime lingue la scrittura procede, come è normale per l’ebraico, da destra verso sinistra. Per Hesemann questa anomalia tradirebbe un intento canzonatorio dei romani nei confronti degli ebrei. Ma il dato più significativo sarebbe fornito dall’esame paleografico, secondo cui lo stile della scrittura corrisponde a quello in voga nel I secolo.

 

E allora? Se sull’antichità del reperto pare non sussistano dubbi, è possibile concludere che quello pervenuto fino a noi è il documento giuridico del più famoso processo della storia? Anche qui, come per la Sindone, è difficile dire se mai si giungerà a una parola definitiva. Fa comunque pensare il fatto che proprio in quest’epoca di vuoto di Dio e di miscredenza, due testimonianze della passione di Cristo – o che comunque "rimandano" ad essa – esercitino più che mai la loro suggestione.

 

1)      Ed. San Paolo.

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